giovedì 25 maggio 2017

SE QUESTO E' GIORNALISMO...

Mi occupo di cronaca da quasi 30 anni, ne ho viste, sentite e scritte di ogni genere e tipo, passando volta per volta per “avvoltoio”, “insensibile”, schiacciasassi disposta a raccontare di tutto e di più.
Si dice “che stomaco che hai” per raccontar certe cose. Che non è proprio così, perché continuo a pensare che se scrivi di cronaca un pizzico di empatia devi averla.
Empatia, ma MAI pelo sullo stomaco.
Perchè è questo, davvero, che oggi mi spinge a scrivere, con rabbia e schifo, di una “cronaca” che non mi competerebbe, professionalmente parlando, visto che non lavoro più per il Corriere della Sera e quindi Pioltello non è più tra i territori di cui occuparmi nel mio ruolo di cronista locale. Ma quello che è successo a Pioltello in questi giorni non può essere taciuto, non può lasciar spazio ad altre storie e finire nel calderone del “è passato”. Vorrei, davvero, che i colleghi per una volta si fermassero a riflettere seriamente, e per una volta passasse l’idea che va bene la difesa della categoria, ma solo quando si rispettano le regole. Non ho detto e scritto nulla, in questi giorni, ma quando questa mattina ho visto cosa è successo nella notte al bar Marrakech, beh scusate, ma mi è montata la carogna. L’episodio in sé è minimo, normalmente non meriterebbe più di 15 righe, ma il contorno no: qualcuno, nella notte, si è sentito autorizzato a cospargere di liquido infiammabile la serranda e a dar fuoco al “covo di pericolosi terroristi”. Per fortuna un gruppo di ragazzi ha visto il bagliore, dato l’allarme e spento il fuoco. Ma c’è quel gesto. Autorizzato da chi? Da un “giornalista” - non lo conosco, non lo cito volutamente ma il nome è ormai ben noto – che in diretta Tv si è permesso di violare ogni più elementare norma di giornalismo dicendo “mi hanno telefonato per dirmi che...”. E da qui si è scatenata la bagarre. Non entro nel merito, non ho intenzione di dar lezioni a nessuno e non sto scrivendo un “pezzo”. Sto esprimendo tutta la mia rabbia per un modo di fare informazione che ha come unico risultato il dare strumenti a chiunque voglia imbavagliare la stampa, “perchè tanto scrivete solo bugie”. Fare giornalismo, informare, significa avere responsabilità immense. Si mettono in piazza vite di persone, storie, eventi che poi crescono e hanno vita propria. Quando racconti, la prima regola è l’avere informazioni sicure. Altrimenti taci. Chiedo, in questo caso si può parlare di giornalismo? E chiedo anche, i danni, seppur minimi, al bar, adesso chi li paga? Mi piacerebbe avere qualche risposta. Mi piacerebbe davvero.

venerdì 27 gennaio 2017

Memoria e bucce di patate

Zio Fello è morto nel 1983, quando ancora pochi si erano resi conto del valore della memoria. Zio Fello era stato internato. Non perché ebreo, non perché oppositore politico. Si era trovato in mezzo al gran caos seguito all'8 settembre, alla ritirata-disfatta di Russia, al “tutti a casa” e “tutti nemici”. Zio Fello non ne parlava volentieri ma ogni tanto ricordava che “i tudesch m'avevan preso”. Non so in che campo fosse finito, non so come ne fosse uscito. Zio Fello è morto prima che si capisse l'importanza di raccontare e i miei 16 anni, tanto impegnati quanto distratti, non m'hanno mai spinto a far quel passo che oggi rimpiango di non aver compiuto: chiedere. Perchè zio Fello non raccontava volentieri di quel periodo, ma ogni tanto qualcosa gli scappava.
Le bucce di patate.
Le unghie strappate.
I denti spariti.
Flash, piccoli sprazzi. Ricordi di quel folletto sempre allegro, così vedo zio Fello, che si rabbuia un po' e poi ridendo mi spiega di che tesoro erano quelle bucce di patate trovate nel rusco, tra l'immondizia. “Festa, festa davvero. A comme l'eran bonne”.
E le unghie strappate. “Al fa mele davera, t'sa?”.
E poi la risata, grassa e incontenibile. “Ma te scherza? Un dente, ma va là”… aveva male alla dentiera – i denti li aveva persi tutti nel campo – e non capiva, poi s'è ritrovato “un dentin, come un cinno”… e rideva, rideva come se si fosse preso una gran rivincita.

Ci penso oggi, ci penso ogni tanto. Zio Fello aveva visto, e io distratta non ho raccolto. Perchè zio Fello aveva visto. Una volta ho chiesto se sapesse delle camere a gas. Lui, piccolo uomo sempre in movimento, si è bloccato per un attimo. Un istante solo, ma è bastato a farmi intuire che si, quell'orrore probabilmente gli era passato vicino. Non ho approfondito, non ho chiesto. Solo anni dopo, quando ormai era tardi, ho capito. E i ricordi, pochi e frammentati, lasciati da zio Fello son comunque un pezzo di quella memoria che abbiamo il dovere di non perdere. Di non dimenticare.