Mi occupo di cronaca
da quasi 30 anni, ne ho viste, sentite e scritte di ogni genere e
tipo, passando volta per volta per “avvoltoio”, “insensibile”,
schiacciasassi disposta a raccontare di tutto e di più.
Si dice “che
stomaco che hai” per raccontar certe cose. Che non è proprio così,
perché continuo a pensare che se scrivi di cronaca un pizzico di
empatia devi averla.
Empatia, ma MAI pelo sullo stomaco.
Perchè è
questo, davvero, che oggi mi spinge a scrivere, con rabbia e schifo,
di una “cronaca” che non mi competerebbe, professionalmente
parlando, visto che non lavoro più per il Corriere della Sera e
quindi Pioltello non è più tra i territori di cui occuparmi nel mio
ruolo di cronista locale. Ma quello che è successo a Pioltello in
questi giorni non può essere taciuto, non può lasciar spazio ad
altre storie e finire nel calderone del “è passato”. Vorrei,
davvero, che i colleghi per una volta si fermassero a riflettere
seriamente, e per una volta passasse l’idea che va bene la difesa
della categoria, ma solo quando si rispettano le regole. Non ho detto
e scritto nulla, in questi giorni, ma quando questa mattina ho visto
cosa è successo nella notte al bar Marrakech, beh scusate, ma mi è
montata la carogna. L’episodio in sé è minimo, normalmente non
meriterebbe più di 15 righe, ma il contorno no: qualcuno, nella
notte, si è sentito autorizzato a cospargere di liquido infiammabile
la serranda e a dar fuoco al “covo di pericolosi terroristi”. Per
fortuna un gruppo di ragazzi ha visto il bagliore, dato l’allarme e
spento il fuoco. Ma c’è quel gesto. Autorizzato da chi? Da un
“giornalista” - non lo conosco, non lo cito volutamente ma il
nome è ormai ben noto – che in diretta Tv si è permesso di
violare ogni più elementare norma di giornalismo dicendo “mi hanno
telefonato per dirmi che...”. E da qui si è scatenata la bagarre.
Non entro nel merito, non ho intenzione di dar lezioni a nessuno e
non sto scrivendo un “pezzo”. Sto esprimendo tutta la mia rabbia
per un modo di fare informazione che ha come unico risultato il dare
strumenti a chiunque voglia imbavagliare la stampa, “perchè tanto
scrivete solo bugie”. Fare giornalismo, informare, significa avere
responsabilità immense. Si mettono in piazza vite di persone,
storie, eventi che poi crescono e hanno vita propria. Quando
racconti, la prima regola è l’avere informazioni sicure.
Altrimenti taci. Chiedo, in questo caso si può parlare di
giornalismo? E chiedo anche, i danni, seppur minimi, al bar, adesso
chi li paga? Mi piacerebbe avere qualche risposta. Mi piacerebbe
davvero.