lunedì 24 settembre 2018

Giorni un po' così...


Giorni così. Di gioia, emozione, paura, rabbia, dolore, tristezza, esaltazione, frenesia, depressione. Senso di colpa. Bipolare, schizofrenica, presuntuosa, egoista, depressa. Giorni di parole che si accavallano l’una sull’altra. Senza senso. Giorni di ricerca disperata di un bandolo capace di districare una matassa che un senso forse non ha. Giorni nascosti da una nuvola che corre veloce, cambia colore, spessore, sapore. Avvolge e stringe. A volte soffoca a volte nutre. Giorni così. Tra autocommiserazione e autoesaltazione, presunzione e bastonate. Tentativo quasi abortito di autoanalisi in giorni indefinibili, fatti a pezzi in un puzzle che non troverà mai soluzione.

Giorni che sarebbero dovuti essere di gioia, emozione e orgoglio puro. Il mio lavoro a Palazzo della Regione, commenti e complimenti, oro e mirra sul mio orgoglio bipolare, sulla mia presunzione tenuta a freno per tutta la vita, sull’incredulità di aver saputo CREARE qualcosa che altri capiscono e apprezzano. Sapore ricco e incredibilmente dolce per un piatto che mai pensavi di poter assaggiare.
E bile che sale non appena socchiudi gli occhi e vedi, con mente, cuore, pelle e ossa, l’immagine che non corrisponde a quello che hai dentro, ad un padre che è sempre stato la tua roccia, il tuo faro, la tua guida.
Quell’uomo che hai amato con tutta te stessa, di quell’amore che solo una figlia sa cosa può essere. E hai odiato con altrettanta forza quando dovevi mostrare di essere altro da lui, dalle regole, dal suo essere incredulo genitore di un’adolescente ombrosa e intrattabile. Con un odio che sai essere venato di talmente tanto amore da non poter essere definito tale.
Quell’uomo tanto simile a me che l’amore infinito che ci lega non è fatto di parole e lunghi discorsi quanto di silenzi, a volte occhiate, a volte scherzi che ad occhi estranei appaiono incomprensibili.
Quell’uomo che vedo bloccato in una ragnatela di ansia, paura, arrendevolezza e rassegnazione che non sono lui. Che fanno arrabbiare. Incazzare è la parola giusta.

Giorni così, alla disperata ricerca di un gancio cui aggrapparsi per non affogare, per non cedere al senso di colpa che ti soffoca se appena appena gioisci e alla rabbia che ti afferra la gola quando il pensiero egoista del “ma perché proprio adesso” si affaccia.

Giorni che pesano sulle spalle, che travolgono e scorrono impetuosi. Giorni che non so come affrontare. Giorni.

sabato 8 settembre 2018

GENESI DI UN'AVVENTURA


C’è un giorno che ti accorgi che certe storie ti sono entrate nelle ossa, che danno un prurito che non sai spiegare. C’è un giorno in cui ti rendi conto che qualcosa non va, e ti fai due domande. Fai due conti. E capisci. Ti occupi di cronaca nera da tanti anni, ma non hai mai messo assieme i pezzi di un puzzle cui nessuno ancora – allora - aveva pensato: quante donne, di ogni età, estrazione e cultura diventano “poche righe in cronaca”.
E ci pensi, e fai due ricerche, allora chiesi anche un piacere agli attivissimi e bravissimi archivisti del Corriere della Sera che con un rapido controllo mi fornirono un numero impressionante di “casi”. Ecco, quello erano, casi… l’idea iniziale era quella di mettere insieme i “casi” irrisolti e magari proporre un po’ di articoli “freddi”. Poi quel tarlo, quel prurito indefinito è tornato a farsi vivo, e mi sono ritrovata a voler dare voce a chi voce non aveva più. Nasce così “Donne a Perdere”, poco meno di un ventina di racconti tutti o quasi ispirati a fatti reali, che si è costruito quasi da solo nell’arco di pochi, pochissimi anni.
Raccolta che ho fatto girare – poco – tra editori distratti e associazioni disinteressate, compresa da qualche amministratore agli esordi delle iniziative per il 25 novembre, con qualche racconto letto con emozione, e finita poi in un cassetto. Un po’ per pigrizia, un po’ per innata e immensa insicurezza, Donne a Perdere è rimasto lì, piccolo pungolo inascoltato.
Fino a quando quello stesso pungolo è tornato a farsi sentire in un’artista vulcanica e inarrestabile. Perchè diciamocela tutta, Carla Bruschi era stata uno di quegli amministratori locali che aveva compreso il senso di “Donne a Perdere” e l’impressione è che non le sia mai andata giù il non aver potuto fare qualcosina di più.
Questa volta però mi ha letteralmente preso per i capelli, mettendomi davanti a qualcosa che io, imbrattacarte di professione, nemmeno immaginavo: la trasformazione delle mie parole in immagini potenti ed evocative.
Perchè io che non sono per nulla avvezza a dipinti e critiche artistiche, nei quadri di Carla vedo tutta la storia che ho cercato di mettere in parole. E allora questa mostra che sta prendendo corpo, che dopo una genesi durata anni (confesso, il primo racconto nasce nel 2006…) è diventata realtà nel giro di pochissimi mesi, ecco, questa mostra credo possa davvero dare un senso a quel prurito, a quella voglia di andare oltre il mestiere di cronista per dare davvero voce alle vittime.