
E
ci pensi, e fai due ricerche, allora chiesi anche un piacere agli
attivissimi e bravissimi archivisti del Corriere della Sera che con
un rapido controllo mi fornirono un numero impressionante di “casi”.
Ecco, quello erano, casi… l’idea iniziale era quella di mettere
insieme i “casi” irrisolti e magari proporre un po’ di articoli
“freddi”. Poi quel tarlo, quel prurito indefinito è tornato a
farsi vivo, e mi sono ritrovata a voler dare voce a chi voce non
aveva più. Nasce così “Donne a Perdere”, poco meno di un
ventina di racconti tutti o quasi ispirati a fatti reali, che si è
costruito quasi da solo nell’arco di pochi, pochissimi anni.

Fino
a quando quello stesso pungolo è tornato a farsi sentire in
un’artista vulcanica e inarrestabile. Perchè diciamocela tutta,
Carla Bruschi era stata uno di quegli amministratori locali che aveva
compreso il senso di “Donne a Perdere” e l’impressione è che
non le sia mai andata giù il non aver potuto fare qualcosina di più.
Questa
volta però mi ha letteralmente preso per i capelli, mettendomi
davanti a qualcosa che io, imbrattacarte di professione, nemmeno
immaginavo: la trasformazione delle mie parole in immagini potenti ed
evocative.
Perchè
io che non sono per nulla avvezza a dipinti e critiche artistiche,
nei quadri di Carla vedo tutta la storia che ho cercato di mettere in
parole. E allora questa mostra che sta prendendo corpo, che dopo una
genesi durata anni (confesso, il primo racconto nasce nel 2006…) è diventata realtà nel giro di pochissimi mesi, ecco, questa mostra
credo possa davvero dare un senso a quel prurito, a quella voglia di
andare oltre il mestiere di cronista per dare davvero voce alle
vittime.
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