Troppo. Troppo dolore, troppa
ansia, troppa paura, troppi eventi ravvicinati, troppo carico su
spalle troppo fragili. Troppo, troppo di tutto. Non ho ancora
metabolizzato dolore ansia paura sconforto di quattro anni fa, non ho
ancora accettato quel pezzo di me che non c’è più, faccio ancora
finta che anche quell’altro pezzo d’infanzia che è svanito poco
dopo faccia parte di un brutto sogno. Troppo, troppo tutto assieme.
Non ho il tempo di elaborare un lutto che ancora non riesco ad
accettare e devo prepararmi ad affrontarne un altro. Troppo, tutto
troppo. Che devi caricare anche sulle spalle di adolescenti che ne
hanno già passate troppe. Troppo. Chi mi spiega chi è il regista di
questo film che non è degno nemmeno di una serie B? Troppo, troppe
lacrime che si fermano in gola. Troppa rabbia che non trova sfogo
perché sa di non aver ragione di esistere ma si presenta uguale.
Troppa e troppo forte. Troppo. E’ la parola che mi urla in testa,
che esplode, che non trova sfogo. Troppo. Davvero troppo. Troppo. Con
la voglia di urlare senza sapere contro chi. Troppo. Troppo troppo di
tutto. Troppo perfino per pensare di trovare modo di capire e
spiegare. Troppo per capire inventare scoprire parole che so esserci
ma sono troppo. Troppo. E tanta voglia di dire basta.
fiabe racconti e storie... esperimenti in corso... sogni di carta e viaggi nelle parole...
lunedì 3 dicembre 2018
giovedì 15 novembre 2018
RIECCOCI!
Qualcuno
dice che è mio pregio, forse però è anche un difetto: quando
scrivo non riesco a non mettere un pezzetto di me in ogni singola
parola, non riesco a nascondermi dietro schermi o arzigogoli
fuorvianti. Nei miei pezzi, nei miei racconti, nelle storie e nelle
fiabe che nascono da una zona ancora inesplorata del mio essere, ci
sono sempre io. E anche questa volta non posso evitare, consapevole
che potrebbe anche apparire piaggeria, furbizia o peggio “trovata
pubblicitaria”, di tirar fuori l’emozione che mi sale pensando
all’appuntamento del 18 novembre.
Chi
mi conosce lo sa, questo non è un periodo bello per me e per la mia
famiglia, ma portare “Donne a Perdere” a San Giuliano, e in una
sala che evoca ricordi e sensazioni importanti, è una sorta di
medicina che aiuta, un balsamo – scontato lo so, ma l’immagine è
quella che più rende l’idea – capace di attenuare, seppur
lievemente, il dolore che abbiamo dentro.
Il
motivo è presto detto: con San Giuliano “Donne a Perdere” ha un
legame particolare: nel 2012, in occasione di una delle prime
iniziative organizzate per il 25 novembre, l’allora assessorato ai
servizi alla persona mi chiese di partecipare, con i miei racconti, a
“Chiedi a me”, pomeriggio di incontro, riflessione e confronto
che ricordo con piacere ed emozione. Donne a Perdere, quindi, un
pochino torna a casa…
Ed
essere ospitate nella sala dedicata a Mario Tapia, ecco, anche questo
è fonte di grande emozione, perché Mario, artista, pittore,
divulgatore, era un amico con il quale la mia famiglia ha condiviso
tanti momenti importanti, e che tornava spesso nelle parole e nei
ricordi di mamma e papà.
Ecco,
si, arrivare a San Giuliano con questa mostra, cui io e Carla
crediamo davvero molto, ha per me un valore immenso. Ripeto, potrebbe
sembrare piaggeria ma credetemi, non è così… sarà un’occasione
speciale, e la messa alla prova di un progetto in cui abbiamo
investito una parte importante del nostro essere donne che
condividono il sogno di lasciare almeno un piccolo segno in una
battaglia, quella contro la violenza, che riteniamo fondamentale.
Quindi
lasciatemelo dire, anche se può apparire come furbo tentativo di
promuovere un evento: grazie a San Giuliano, e grazie a chi ha saputo
cogliere il senso di “Donne a Perdere”. E vi aspettiamo dalle 17
di domenica 18 novembre.
martedì 6 novembre 2018
Ciao papà
E poi scopri che quello che hai sempre guardato come il tuo eroe, il modello da imitare e anche un po’ da combattere – perché questo sono gli eroi/papà per le figlie – quello che hai sempre pensato esempio di rigore, onestà, correttezza, ecco, quello un po’ eroe lo era per davvero, ma nel senso vero del termine… lo scopri attraverso le parole commosse e spezzate di un collega che arriva trafelato per l’ultimo saluto e la prima cosa che ti dice è “io a questo qua devo la vita, lui lo sa, gli devo la vita”…
Ascolti,
un po’ abbozzi e, si lo confesso, ho anche pensato “ma pensa te,
cosa fa l’età che avanza”. Poi mi ha guardata e mi ha detto “non
sai niente, te non sai niente...” E ha iniziato un racconto che mi
ha regalato un papà poco più che ventenne che non esita a gettarsi
a terra per afferrare le caviglie di un collega e amico che sta
rischiando di precipitare.
Lo
ascolto, guardo gli occhi lucidi, sento le parole. E cresce ancora
l’orgoglio. Quello, quello lì è stato – E’ - il mio papà. E
mi sento felice di essere riuscita a rintracciare chi ha fatto parte
di quel pezzo di vita di papà che noi figlie conoscevamo solo per
racconti frammentari, a volte raccontati ridendo a volte un po’
romanzati. Anni che sono stati importanti per papà, lo sappiamo, e
sono stati importanti per chi era con lui in quel posto di lavoro che era qualcosa di più di uno stipendio da portare a casa, era orgoglio di
appartenere ad una “squadra” capace di far volare l’Italia.
Felice di aver ritrovato un pezzo di quegli anni, piccolo lo so
perché non c’è stato il tempo che pensavamo di avere, e di aver
ricevuto, inaspettato, il dono di quel ricordo che mi ha riportato il
mio papà EROE.
Lo
so che adesso è tempo di lacrime e dolore, ma è anche tempo di
riconoscenza per quanto ha saputo darci e dare. Ed è anche tempo di
sperare che sia tornato a battibeccare con la sua Laura, quella che
“non mi ha neanche dato la soddisfazione di festeggiare il 50imo di
matrimonio” ma che ha continuato ad essere accanto a lui, e a noi,
in ogni giorno di questi anni.
Ciao
papà, ciao mio eroe, ciao nonno meraviglioso capace di trasmettere
un patrimonio di amore che, te lo giuriamo, non andrà disperso.
lunedì 24 settembre 2018
Giorni un po' così...
Giorni così. Di gioia, emozione,
paura, rabbia, dolore, tristezza, esaltazione, frenesia, depressione.
Senso di colpa. Bipolare, schizofrenica, presuntuosa, egoista,
depressa. Giorni di parole che si accavallano l’una sull’altra.
Senza senso. Giorni di ricerca disperata di un bandolo capace di
districare una matassa che un senso forse non ha. Giorni nascosti da
una nuvola che corre veloce, cambia colore, spessore, sapore. Avvolge
e stringe. A volte soffoca a volte nutre. Giorni così. Tra
autocommiserazione e autoesaltazione, presunzione e bastonate.
Tentativo quasi abortito di autoanalisi in giorni indefinibili, fatti
a pezzi in un puzzle che non troverà mai soluzione.
Giorni
che sarebbero dovuti essere di gioia, emozione e orgoglio puro. Il
mio lavoro a Palazzo della Regione, commenti e complimenti, oro e
mirra sul mio orgoglio bipolare, sulla mia presunzione tenuta a freno
per tutta la vita, sull’incredulità di aver saputo CREARE qualcosa
che altri capiscono e apprezzano. Sapore ricco e incredibilmente
dolce per un piatto che mai pensavi di poter assaggiare.
E
bile che sale non appena socchiudi gli occhi e vedi, con mente,
cuore, pelle e ossa, l’immagine che non corrisponde a quello che
hai dentro, ad un padre che è sempre stato la tua roccia, il tuo
faro, la tua guida.
Quell’uomo
che hai amato con tutta te stessa, di quell’amore che solo una
figlia sa cosa può essere. E hai odiato con altrettanta forza quando
dovevi mostrare di essere altro da lui, dalle regole, dal suo essere
incredulo genitore di un’adolescente ombrosa e intrattabile. Con un
odio che sai essere venato di talmente tanto amore da non poter
essere definito tale.
Quell’uomo
tanto simile a me che l’amore infinito che ci lega non è fatto di
parole e lunghi discorsi quanto di silenzi, a volte occhiate, a volte
scherzi che ad occhi estranei appaiono incomprensibili.
Quell’uomo
che vedo bloccato in una ragnatela di ansia, paura, arrendevolezza e
rassegnazione che non sono lui. Che fanno arrabbiare. Incazzare è la
parola giusta.
Giorni
così, alla disperata ricerca di un gancio cui aggrapparsi per non
affogare, per non cedere al senso di colpa che ti soffoca se appena
appena gioisci e alla rabbia che ti afferra la gola quando il
pensiero egoista del “ma perché proprio adesso” si affaccia.
Giorni
che pesano sulle spalle, che travolgono e scorrono impetuosi. Giorni
che non so come affrontare. Giorni.
sabato 8 settembre 2018
GENESI DI UN'AVVENTURA
C’è
un giorno che ti accorgi che certe storie ti sono entrate nelle ossa,
che danno un prurito che non sai spiegare. C’è un giorno in cui ti
rendi conto che qualcosa non va, e ti fai due domande. Fai due conti.
E capisci. Ti occupi di cronaca nera da tanti anni, ma non hai mai
messo assieme i pezzi di un puzzle cui nessuno ancora – allora -
aveva pensato: quante donne, di ogni età, estrazione e cultura
diventano “poche righe in cronaca”.
E
ci pensi, e fai due ricerche, allora chiesi anche un piacere agli
attivissimi e bravissimi archivisti del Corriere della Sera che con
un rapido controllo mi fornirono un numero impressionante di “casi”.
Ecco, quello erano, casi… l’idea iniziale era quella di mettere
insieme i “casi” irrisolti e magari proporre un po’ di articoli
“freddi”. Poi quel tarlo, quel prurito indefinito è tornato a
farsi vivo, e mi sono ritrovata a voler dare voce a chi voce non
aveva più. Nasce così “Donne a Perdere”, poco meno di un
ventina di racconti tutti o quasi ispirati a fatti reali, che si è
costruito quasi da solo nell’arco di pochi, pochissimi anni.
Raccolta
che ho fatto girare – poco – tra editori distratti e associazioni
disinteressate, compresa da qualche amministratore agli esordi delle
iniziative per il 25 novembre, con qualche racconto letto con
emozione, e finita poi in un cassetto. Un po’ per pigrizia, un po’
per innata e immensa insicurezza, Donne a Perdere è rimasto lì,
piccolo pungolo inascoltato.
Fino
a quando quello stesso pungolo è tornato a farsi sentire in
un’artista vulcanica e inarrestabile. Perchè diciamocela tutta,
Carla Bruschi era stata uno di quegli amministratori locali che aveva
compreso il senso di “Donne a Perdere” e l’impressione è che
non le sia mai andata giù il non aver potuto fare qualcosina di più.
Questa
volta però mi ha letteralmente preso per i capelli, mettendomi
davanti a qualcosa che io, imbrattacarte di professione, nemmeno
immaginavo: la trasformazione delle mie parole in immagini potenti ed
evocative.
Perchè
io che non sono per nulla avvezza a dipinti e critiche artistiche,
nei quadri di Carla vedo tutta la storia che ho cercato di mettere in
parole. E allora questa mostra che sta prendendo corpo, che dopo una
genesi durata anni (confesso, il primo racconto nasce nel 2006…) è diventata realtà nel giro di pochissimi mesi, ecco, questa mostra
credo possa davvero dare un senso a quel prurito, a quella voglia di
andare oltre il mestiere di cronista per dare davvero voce alle
vittime.
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