venerdì 27 settembre 2019

SU GRETA ED ALTRO



Considerazioni a margine. Con una premessa: ho volutamente evitato di addentrarmi nel mare magnum di “rivelazioni, scoop, sfrucuglii e vi dico io come stanno le cose” che da settimane si rincorrono sul tema Greta Thunberg. Tra ipotesi complottiste, certezze sul marketing internazionale e quello strisciante, insopportabile paternalismo venato da quel fondo di maschilismo che proprio non si riesce ad estirpare, solo leggere qualche riga fa salire la nausea.

Non so niente, quindi, su chi si nasconde dietro Greta, non so niente della “macchina per far soldi” o del presunto complotto mondiale per distogliere nonohocapitodaqualequestione. Nulla, se non quello che inevitabilmente riesce a passare qualunque filtro, abbastanza però per farmi pensare che ancora una volta ci troviamo davanti ad un grande “anticorpo” che entra in funzione per difendere una entità che è in putrefazione ormai da decenni. Perchè Greta, così sembra stiano cercando di farci credere, è una sorta di “virus” inoculata da non si sa bene chi per non si sa bene perché, e i nostri (perché sono i NOSTRI, non dimentichiamolo) ragazzi sono una sorta di zombie infettati che agiscono a comando… Ecco, no. Scusate, ma francamente mi sembra che ancora una volta si sia messa in moto quella che in tante occasioni è stata definita macchina del fango destinata semplicemente a spostare l’attenzione su un tema che dovrebbe, davvero, riguardarci tutti e che dovrebbe farci vergognare almeno un pochino per aver dimenticato il mondo che sognavamo a 16 anni.

Perchè diciamocelo, il problema sta qua. Greta e la marea che è riuscita a sollevare sono un pugno nello stomaco di una generazione che non ha saputo o voluto portare avanti ideali molto simili, e che anzi ha saccheggiato a piene mani tutto ciò che la “modernità” offriva, adagiandosi su comodità alla portata di tutti senza più farsi domande su quello che succedeva altrove.
Greta e tutti gli altri ci stanno dicendo che la colpa è si del “mercato”, ma il mercato, quello occidentale inquinante e fagocitante siamo noi.

E accettare la critica, adottare misure reali, FARE, probabilmente per alcuni è inaccettabile.
Ecco così il fuoco ad alzo zero che è partito, soprattutto in Italia, contro una ragazzina “colpevole” di essere riuscita laddove tanti hanno fallito.
E’ stata aiutata? Sicuramente. Da una famiglia che non le ha detto “lascia stare, non capisci niente, pensa a studiare che quando sarai grande capirai”. Dalla tecnologia, che oggi offre, a chi la sa usare, la possibilità di ampliare la platea di ascoltatori. Da un sogno. Che forse tutti noi dovremmo tornare a far rivivere.

Ultima nota. Ci sono cose che mi urtano, profondamente: la consapevolezza che molti degli attacchi feroci contro Greta prendono le mosse dal suo essere “ragazzina, malata, bruttina”… Leggeteli, quegli attacchi, io ci leggo maschilismo, misoginia, paternalismo, ignoranza. E mi sale la rabbia.



lunedì 3 dicembre 2018

TROPPO. E BASTA

Troppo. Troppo dolore, troppa ansia, troppa paura, troppi eventi ravvicinati, troppo carico su spalle troppo fragili. Troppo, troppo di tutto. Non ho ancora metabolizzato dolore ansia paura sconforto di quattro anni fa, non ho ancora accettato quel pezzo di me che non c’è più, faccio ancora finta che anche quell’altro pezzo d’infanzia che è svanito poco dopo faccia parte di un brutto sogno. Troppo, troppo tutto assieme. Non ho il tempo di elaborare un lutto che ancora non riesco ad accettare e devo prepararmi ad affrontarne un altro. Troppo, tutto troppo. Che devi caricare anche sulle spalle di adolescenti che ne hanno già passate troppe. Troppo. Chi mi spiega chi è il regista di questo film che non è degno nemmeno di una serie B? Troppo, troppe lacrime che si fermano in gola. Troppa rabbia che non trova sfogo perché sa di non aver ragione di esistere ma si presenta uguale. Troppa e troppo forte. Troppo. E’ la parola che mi urla in testa, che esplode, che non trova sfogo. Troppo. Davvero troppo. Troppo. Con la voglia di urlare senza sapere contro chi. Troppo. Troppo troppo di tutto. Troppo perfino per pensare di trovare modo di capire e spiegare. Troppo per capire inventare scoprire parole che so esserci ma sono troppo. Troppo. E tanta voglia di dire basta.


giovedì 15 novembre 2018

RIECCOCI!


Qualcuno dice che è mio pregio, forse però è anche un difetto: quando scrivo non riesco a non mettere un pezzetto di me in ogni singola parola, non riesco a nascondermi dietro schermi o arzigogoli fuorvianti. Nei miei pezzi, nei miei racconti, nelle storie e nelle fiabe che nascono da una zona ancora inesplorata del mio essere, ci sono sempre io. E anche questa volta non posso evitare, consapevole che potrebbe anche apparire piaggeria, furbizia o peggio “trovata pubblicitaria”, di tirar fuori l’emozione che mi sale pensando all’appuntamento del 18 novembre.
Chi mi conosce lo sa, questo non è un periodo bello per me e per la mia famiglia, ma portare “Donne a Perdere” a San Giuliano, e in una sala che evoca ricordi e sensazioni importanti, è una sorta di medicina che aiuta, un balsamo – scontato lo so, ma l’immagine è quella che più rende l’idea – capace di attenuare, seppur lievemente, il dolore che abbiamo dentro.
Il motivo è presto detto: con San Giuliano “Donne a Perdere” ha un legame particolare: nel 2012, in occasione di una delle prime iniziative organizzate per il 25 novembre, l’allora assessorato ai servizi alla persona mi chiese di partecipare, con i miei racconti, a “Chiedi a me”, pomeriggio di incontro, riflessione e confronto che ricordo con piacere ed emozione. Donne a Perdere, quindi, un pochino torna a casa…
Ed essere ospitate nella sala dedicata a Mario Tapia, ecco, anche questo è fonte di grande emozione, perché Mario, artista, pittore, divulgatore, era un amico con il quale la mia famiglia ha condiviso tanti momenti importanti, e che tornava spesso nelle parole e nei ricordi di mamma e papà.
Ecco, si, arrivare a San Giuliano con questa mostra, cui io e Carla crediamo davvero molto, ha per me un valore immenso. Ripeto, potrebbe sembrare piaggeria ma credetemi, non è così… sarà un’occasione speciale, e la messa alla prova di un progetto in cui abbiamo investito una parte importante del nostro essere donne che condividono il sogno di lasciare almeno un piccolo segno in una battaglia, quella contro la violenza, che riteniamo fondamentale.
Quindi lasciatemelo dire, anche se può apparire come furbo tentativo di promuovere un evento: grazie a San Giuliano, e grazie a chi ha saputo cogliere il senso di “Donne a Perdere”. E vi aspettiamo dalle 17 di domenica 18 novembre.


martedì 6 novembre 2018

Ciao papà





E poi scopri che quello che hai sempre guardato come il tuo eroe, il modello da imitare e anche un po’ da combattere – perché questo sono gli eroi/papà per le figlie – quello che hai sempre pensato esempio di rigore, onestà, correttezza, ecco, quello un po’ eroe lo era per davvero, ma nel senso vero del termine… lo scopri attraverso le parole commosse e spezzate di un collega che arriva trafelato per l’ultimo saluto e la prima cosa che ti dice è “io a questo qua devo la vita, lui lo sa, gli devo la vita”…
Ascolti, un po’ abbozzi e, si lo confesso, ho anche pensato “ma pensa te, cosa fa l’età che avanza”. Poi mi ha guardata e mi ha detto “non sai niente, te non sai niente...” E ha iniziato un racconto che mi ha regalato un papà poco più che ventenne che non esita a gettarsi a terra per afferrare le caviglie di un collega e amico che sta rischiando di precipitare.
Lo ascolto, guardo gli occhi lucidi, sento le parole. E cresce ancora l’orgoglio. Quello, quello lì è stato – E’ - il mio papà. E mi sento felice di essere riuscita a rintracciare chi ha fatto parte di quel pezzo di vita di papà che noi figlie conoscevamo solo per racconti frammentari, a volte raccontati ridendo a volte un po’ romanzati. Anni che sono stati importanti per papà, lo sappiamo, e sono stati importanti per chi era con lui in quel posto di lavoro che era qualcosa di più di uno stipendio da portare a casa, era orgoglio di appartenere ad una “squadra” capace di far volare l’Italia. Felice di aver ritrovato un pezzo di quegli anni, piccolo lo so perché non c’è stato il tempo che pensavamo di avere, e di aver ricevuto, inaspettato, il dono di quel ricordo che mi ha riportato il mio papà EROE.
Lo so che adesso è tempo di lacrime e dolore, ma è anche tempo di riconoscenza per quanto ha saputo darci e dare. Ed è anche tempo di sperare che sia tornato a battibeccare con la sua Laura, quella che “non mi ha neanche dato la soddisfazione di festeggiare il 50imo di matrimonio” ma che ha continuato ad essere accanto a lui, e a noi, in ogni giorno di questi anni.
Ciao papà, ciao mio eroe, ciao nonno meraviglioso capace di trasmettere un patrimonio di amore che, te lo giuriamo, non andrà disperso.


lunedì 24 settembre 2018

Giorni un po' così...


Giorni così. Di gioia, emozione, paura, rabbia, dolore, tristezza, esaltazione, frenesia, depressione. Senso di colpa. Bipolare, schizofrenica, presuntuosa, egoista, depressa. Giorni di parole che si accavallano l’una sull’altra. Senza senso. Giorni di ricerca disperata di un bandolo capace di districare una matassa che un senso forse non ha. Giorni nascosti da una nuvola che corre veloce, cambia colore, spessore, sapore. Avvolge e stringe. A volte soffoca a volte nutre. Giorni così. Tra autocommiserazione e autoesaltazione, presunzione e bastonate. Tentativo quasi abortito di autoanalisi in giorni indefinibili, fatti a pezzi in un puzzle che non troverà mai soluzione.

Giorni che sarebbero dovuti essere di gioia, emozione e orgoglio puro. Il mio lavoro a Palazzo della Regione, commenti e complimenti, oro e mirra sul mio orgoglio bipolare, sulla mia presunzione tenuta a freno per tutta la vita, sull’incredulità di aver saputo CREARE qualcosa che altri capiscono e apprezzano. Sapore ricco e incredibilmente dolce per un piatto che mai pensavi di poter assaggiare.
E bile che sale non appena socchiudi gli occhi e vedi, con mente, cuore, pelle e ossa, l’immagine che non corrisponde a quello che hai dentro, ad un padre che è sempre stato la tua roccia, il tuo faro, la tua guida.
Quell’uomo che hai amato con tutta te stessa, di quell’amore che solo una figlia sa cosa può essere. E hai odiato con altrettanta forza quando dovevi mostrare di essere altro da lui, dalle regole, dal suo essere incredulo genitore di un’adolescente ombrosa e intrattabile. Con un odio che sai essere venato di talmente tanto amore da non poter essere definito tale.
Quell’uomo tanto simile a me che l’amore infinito che ci lega non è fatto di parole e lunghi discorsi quanto di silenzi, a volte occhiate, a volte scherzi che ad occhi estranei appaiono incomprensibili.
Quell’uomo che vedo bloccato in una ragnatela di ansia, paura, arrendevolezza e rassegnazione che non sono lui. Che fanno arrabbiare. Incazzare è la parola giusta.

Giorni così, alla disperata ricerca di un gancio cui aggrapparsi per non affogare, per non cedere al senso di colpa che ti soffoca se appena appena gioisci e alla rabbia che ti afferra la gola quando il pensiero egoista del “ma perché proprio adesso” si affaccia.

Giorni che pesano sulle spalle, che travolgono e scorrono impetuosi. Giorni che non so come affrontare. Giorni.

sabato 8 settembre 2018

GENESI DI UN'AVVENTURA


C’è un giorno che ti accorgi che certe storie ti sono entrate nelle ossa, che danno un prurito che non sai spiegare. C’è un giorno in cui ti rendi conto che qualcosa non va, e ti fai due domande. Fai due conti. E capisci. Ti occupi di cronaca nera da tanti anni, ma non hai mai messo assieme i pezzi di un puzzle cui nessuno ancora – allora - aveva pensato: quante donne, di ogni età, estrazione e cultura diventano “poche righe in cronaca”.
E ci pensi, e fai due ricerche, allora chiesi anche un piacere agli attivissimi e bravissimi archivisti del Corriere della Sera che con un rapido controllo mi fornirono un numero impressionante di “casi”. Ecco, quello erano, casi… l’idea iniziale era quella di mettere insieme i “casi” irrisolti e magari proporre un po’ di articoli “freddi”. Poi quel tarlo, quel prurito indefinito è tornato a farsi vivo, e mi sono ritrovata a voler dare voce a chi voce non aveva più. Nasce così “Donne a Perdere”, poco meno di un ventina di racconti tutti o quasi ispirati a fatti reali, che si è costruito quasi da solo nell’arco di pochi, pochissimi anni.
Raccolta che ho fatto girare – poco – tra editori distratti e associazioni disinteressate, compresa da qualche amministratore agli esordi delle iniziative per il 25 novembre, con qualche racconto letto con emozione, e finita poi in un cassetto. Un po’ per pigrizia, un po’ per innata e immensa insicurezza, Donne a Perdere è rimasto lì, piccolo pungolo inascoltato.
Fino a quando quello stesso pungolo è tornato a farsi sentire in un’artista vulcanica e inarrestabile. Perchè diciamocela tutta, Carla Bruschi era stata uno di quegli amministratori locali che aveva compreso il senso di “Donne a Perdere” e l’impressione è che non le sia mai andata giù il non aver potuto fare qualcosina di più.
Questa volta però mi ha letteralmente preso per i capelli, mettendomi davanti a qualcosa che io, imbrattacarte di professione, nemmeno immaginavo: la trasformazione delle mie parole in immagini potenti ed evocative.
Perchè io che non sono per nulla avvezza a dipinti e critiche artistiche, nei quadri di Carla vedo tutta la storia che ho cercato di mettere in parole. E allora questa mostra che sta prendendo corpo, che dopo una genesi durata anni (confesso, il primo racconto nasce nel 2006…) è diventata realtà nel giro di pochissimi mesi, ecco, questa mostra credo possa davvero dare un senso a quel prurito, a quella voglia di andare oltre il mestiere di cronista per dare davvero voce alle vittime.


giovedì 25 maggio 2017

SE QUESTO E' GIORNALISMO...

Mi occupo di cronaca da quasi 30 anni, ne ho viste, sentite e scritte di ogni genere e tipo, passando volta per volta per “avvoltoio”, “insensibile”, schiacciasassi disposta a raccontare di tutto e di più.
Si dice “che stomaco che hai” per raccontar certe cose. Che non è proprio così, perché continuo a pensare che se scrivi di cronaca un pizzico di empatia devi averla.
Empatia, ma MAI pelo sullo stomaco.
Perchè è questo, davvero, che oggi mi spinge a scrivere, con rabbia e schifo, di una “cronaca” che non mi competerebbe, professionalmente parlando, visto che non lavoro più per il Corriere della Sera e quindi Pioltello non è più tra i territori di cui occuparmi nel mio ruolo di cronista locale. Ma quello che è successo a Pioltello in questi giorni non può essere taciuto, non può lasciar spazio ad altre storie e finire nel calderone del “è passato”. Vorrei, davvero, che i colleghi per una volta si fermassero a riflettere seriamente, e per una volta passasse l’idea che va bene la difesa della categoria, ma solo quando si rispettano le regole. Non ho detto e scritto nulla, in questi giorni, ma quando questa mattina ho visto cosa è successo nella notte al bar Marrakech, beh scusate, ma mi è montata la carogna. L’episodio in sé è minimo, normalmente non meriterebbe più di 15 righe, ma il contorno no: qualcuno, nella notte, si è sentito autorizzato a cospargere di liquido infiammabile la serranda e a dar fuoco al “covo di pericolosi terroristi”. Per fortuna un gruppo di ragazzi ha visto il bagliore, dato l’allarme e spento il fuoco. Ma c’è quel gesto. Autorizzato da chi? Da un “giornalista” - non lo conosco, non lo cito volutamente ma il nome è ormai ben noto – che in diretta Tv si è permesso di violare ogni più elementare norma di giornalismo dicendo “mi hanno telefonato per dirmi che...”. E da qui si è scatenata la bagarre. Non entro nel merito, non ho intenzione di dar lezioni a nessuno e non sto scrivendo un “pezzo”. Sto esprimendo tutta la mia rabbia per un modo di fare informazione che ha come unico risultato il dare strumenti a chiunque voglia imbavagliare la stampa, “perchè tanto scrivete solo bugie”. Fare giornalismo, informare, significa avere responsabilità immense. Si mettono in piazza vite di persone, storie, eventi che poi crescono e hanno vita propria. Quando racconti, la prima regola è l’avere informazioni sicure. Altrimenti taci. Chiedo, in questo caso si può parlare di giornalismo? E chiedo anche, i danni, seppur minimi, al bar, adesso chi li paga? Mi piacerebbe avere qualche risposta. Mi piacerebbe davvero.