mercoledì 31 marzo 2010

Lo gnomo Gnocco


"E miseria, ma è mai possibile che sia così difficile?!?". Gnocco buttò per terra la corda e l'asse che stava cercando di sistemare. La corda, uno splendido e lungo cavo di mille colori, si era tutta ingarbugliata e non ne voleva sapere di trasformarsi in quello che Gnocco voleva…. una fantastica, grande e fantasiosa altalena destinata a portarlo in alto nel cielo…
Gnocco, forse è meglio spiegarlo subito, era un piccolo e buffo gnomo del Paese delle Rose. Piccolo, appunto: alto una spanna come tutti i suoi fratelli - forse qualcosa di meno, da qui il nome che gli avevano dato visto che era anche cicciotto - e buffo perché la grande e folta barba che gli incorniciava il mento era divisa in tante striscioline. Sembrava quasi che avesse le treccine, sul mento, e per quanto la lisciasse e la impomatasse - usando una specie di gel che si trovava nel Paese delle Rose, la bava delle lumache!!! - quella proprio non ne voleva sapere di stare composta. Gnocco ormai si era abituato, e quasi non ci faceva più caso, ma chi lo incontrava per la prima volta non poteva fare a meno di scoppiare a ridere, cosa che ovviamente lo faceva imbufalire. Allora diventava tutto rosso che sembrava quasi sul punto di scoppiare, e le treccine della barba si aggrovigliavano ancora di più. Lo sfortunato visitatore si ritrovava davanti ad un ometto piccolo piccolo e grassottello, così rosso da sembrare infuocato, e con degli strani serpentelli sul mento che parevano quasi voler mordere tutto quello che gli capitava a tiro… Niente di strano che la risata diventasse ancora più forte, e che Gnocco si arrabbiasse sempre di più…
Il risultato era che Gnocco preferiva non farsi vedere da nessuno, e così, tanto per passare il tempo, aveva deciso che avrebbe costruito il più bel giocattolo mai visto nel Paese delle Rose, un'altalena appunto. Ma sarebbe dovuta essere un'altalena speciale, con una corda colorata intrecciata appositamente dalle fatine, e un sedile in legno profumato che avrebbe portato Gnocco a toccare le nuvole…
Solo che Gnocco, pasticcione come tutti gli gnomi, proprio non riusciva a costruirla. Per tutto il giorno aveva tentato di legare la corda al ramo più alto di un albero di castagne, e di agganciarci il sedile in modo che non cadesse. Ogni volta però succedeva qualcosa: un nodo troppo lento che appena lo toccava si scioglieva, un ramo troppo giovane che non riusciva a sostenere il peso, uno scoiattolo che incuriosito da tutto quel tramestio decideva di sgranocchiare proprio la corda… Insomma, un gran pasticcio! E ancora una volta Gnocco era sul punto di arrabbiarsi. Lo Gnomo però non si era accorto che, nascosta dietro un gran cespuglio di rose, c'era una fatina - si chiamava Bianca - che lo osservava attenta. Quando Gnocco, ancora una volta, sbuffò e strillò per la rabbia "UFFA!!! Non è possibile!", Bianca si lasciò scappare una risatina.
"Ehi - strillò allora Gnocco - chi è che ride di me? Fatti vedere se hai il coraggio!"
"Non rido di te - rispose Bianca - ma di tutti i pasticci che stai facendo! Possibile che sia così difficile montare un'altalena?"
"Beh, se sei tanto brava, perché non ci provi tu", replicò Gnocco, sempre ad un passo dalla rabbia.
Bianca non se lo fece ripetere, uscì dal cespuglio e con un tocco di bacchetta magica… oplà! L'altalena era montata.
"Brava, bella forza - esclamò Gnocco - tu hai la magia! Ci credo che sei capace"
"Beh, non era quello che volevi? - rispose tranquilla Bianca, sempre gentile come sanno essere solo le fatine - Allora forza, fammi vedere adesso cosa vuoi fare"
Un po' rabbonito, Gnocco si guardò attorno: nessuno li stava osservando, poteva tentare l'avventura! E quatto quatto salì sul sedile, deciso a far vedere a quella smorfiosa di fatina quanto era bravo a dondolarsi sull'altalena… Le avrebbe fatto vedere lui, e avrebbe fatto una cosa che nessuno era mai stato capace di fare: avrebbe portato a terra un pezzetto di nuvola.
Gnocco iniziò a dondolarsi, prima piano piano, con cautela, poi sempre più forte fino a diventare una macchia di colore contro l'azzurro del cielo.
A un certo punto andava così in alto che pensò di essere ormai arrivato alle nuvole, così allungò una mano, deciso ad afferrarne una. Solo che andava così forte che quando staccò la mano…. Non riuscì più a tenersi! E il risultato fu che Gnocco si ritrovò a volare per davvero, ma questa volta senza altalena!
"UUUUUUHHHHHHHHH" urlò mentre la spinta lo catapultava verso terra. Poi si sentì uno "SPLAAAAAAASHHHHHH" fortissimo: Gnocco era finito nello stagno!
Lo gnomo si alzò dall'acqua sputacchiando. Sulla testa gli era rimasta una ninfea - sapete, uno di quei fiori che crescono nell'acqua degli stagni - e infilate in mezzo alla barba, tre ranocchie un po' stupite… "Miseria che volo!" strillò Gnocco. Bianca arrivò in un baleno, ad assicurarsi che lo gnomo non fosse ferito, e quando lo vide tutto gocciolante, con fiore e foglie che gli pendevano sugli occhi e tre ranocchie ingarbugliate nella barba a treccine, scoppiò a ridere.
"Ehi - strillò Gnocco - io cado così e tu ridi? Ti sembra bello…" sembrava quasi sul punto di arrabbiarsi, ma proprio in quel momento una delle ranocchie riuscì a liberarsi e gli si infilò in un orecchio: "ah oh eh… che fai!" balbettò Gnocco, prima di scoprire che… accidenti, era proprio divertente! E scoppiò a ridere anche lui!
Gnocco e Bianca cominciarono a ridere così forte che dal bosco si affacciarono altri gnomi, e fate e folletti, e qualche scoiattolo, due conigli e un cerbiatto. E ridevano così irresistibilmente che dopo poco, tutti cominciarono a ridere, così forte da aver quasi mal di pancia! E nel giro di poco, tutto il Paese delle Rose risuonò di risate così forti e potenti che il mago Zazum, che ancora una volta stava complottando per diventare lui il padrone di tutto, decise che forse quel giorno era meglio non farsi vedere…. Si sa, in nessun tempo e in nessun luogo è mai esistita una magia più potente della risata!

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lunedì 29 marzo 2010

STORIA DI LUDMILLA

Questa non è una fiaba... è il primo di una serie di racconti "seri".


Sedici anni, la testa piena di sogni e il mondo stretto nel pugno. Tutto da conquistare.
Ricordi come ero? Giovane, ingenua, carina, decisa a mordere la vita e convinta di avere ogni numero giusto, carte truccate per sconfiggere la partita della vita. Ci credevo davvero, ricordi? Ricordi quando dicevo che me ne sarei andata da quel posto sperduto, da un paese che non offriva niente? Che io non sarei mai stata come mia madre, il ventre sformato dalle troppe gravidanze, le mani gonfie e rosse per i troppi panni lavati, la schiena distrutta dai figli da cullare, la legna da tagliare e l’acqua da portare a casa. No. Io non sarei mai diventata come lei. Io no. Io avevo i miei sogni. Una casa in città, in un posto elegante. Un salotto buono per accogliere amici, un lavoro importante. E un uomo tutto per me, che mi avrebbe amata, rispettata, coccolata. Sogni. Che fine hanno fatto oggi quei sogni? Dove sono andati? Cosa sono diventati?
Ci credevo sai, ci credevo davvero. E ho creduto anche a quello che mi ha detto “vieni con me, ci penso io”. Chissà cosa pensavo, chissà cosa ho immaginato. A pensarci oggi, non riesco a ricordare. Non ricordo cosa ho visto in lui, cosa ho visto nelle sue parole. Gli ho creduto quando mi raccontava di un posto dove tutto sarebbe stato più facile, dove avrei potuto costruirmi quella vita che sognavo e dove non importava da dove venivi. Lavorare era facile, diceva, e i soldi arrivano veloci. “Vieni, vedrai”. E io sono andata.
E adesso? Cosa ne è stato di quelle promesse? Di quelle parole? Come ho fatto a diventare quella che sono oggi, e come ho fatto ad arrivare qua, adesso?
Non lo so, o forse non voglio saperlo. Perché fa male pensare ai miei sedici anni perduti, ai miei sogni inutili schiantatisi senza quasi far rumore. Alle botte, alla violenza, agli insulti e alle minacce. Perché lavorare è facile, i soldi arrivano, ma a che prezzo? Io lo conosco, quel prezzo, lo conoscono i miei sedici anni che oggi non ci sono più, annientati, trasformati in macerie sterili, tanto inutili da non meritare neanche un’occhiata distratta. Cosa sono oggi? Un fantasma, una di quelle strane figure che si intravedono nel buio di una strada, donne non donne. Pezzi di carne da usare e gettare. Un buco nero nel quale entrare senza nemmeno chiedere “permesso?”. I miei sedici anni nemmeno sapevano che si poteva diventare così. Che esistevano posti come questo. Che un giorno mi sarei guardata allo specchio e avrei visto occhi da vecchia su un volto che non ha ancora nemmeno vent’anni.
Dillo, raccontalo a quelle sedicenni che ancora sognano. Che continuino a sognare. Che continuino ad ascoltare quei sogni ma senza prestare orecchio a chi dice che quei sogni li può trasformare in realtà. Dillo, racconta. E parla di me, della mia storia, di quello che sono diventata oggi. Pezzo di carne da macello, corpo a perdere dove affondare il coltello mille volte, mucchio di panni smessi da buttare sul ciglio di una strada, fagotto informe che non merita nemmeno una seconda occhiata.

Titolo in cronaca: Prostituta albanese massacrata a coltellate

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domenica 28 marzo 2010

Stella

"Ma dai, mamma! Ma possibile che nelle tue storie non succede mai niente di interessante? Uffa, e fate, principesse, gnomi, folletti e bimbi bravissimi! Che noia. Mai un cattivo, chessò, un orco, un drago, un mostro di quelli da paura…"
Stella sbuffava esasperata roteando gli occhi… davvero, le storie che raccontava mamma erano sempre carine, dolci, ma che noia!
La mamma, un po' perplessa e un po' dispiaciuta, proprio non capiva. "Ma come - disse - io pensavo ti piacesse… sai, non è poi tanto carino spaventare i bambini… almeno, io l’ho sempre pensata così…”
“Si, si, lo so, me lo hai sempre detto – rispose Stella – ma gli altri bambini conoscono storie interessantissime, avventure incredibili… e poi nelle favole alla fine i buoni vincono sempre, no? E allora, per una volta, perché non me ne racconti una così?”
“Veramente non so se ne conosco – disse titubante la mamma – magari ci penso…”
E mentre la mamma pensava, Stella cominciò a rimuginare: “che barba però, tanto lo so che alla fine ne tira fuori una delle solite, di quelle che servono ad insegnarmi quanto è importanti essere bravi ed assennati, quanto è bello dar retta ai grandi, e quanto sono dolci, carini e bravi, belli e buoni gnomi, folletti, fatine e principesse… che io mica li ho mai incontrati, e mai li incontrerò. Uffa, ma possibile che le avventure capitano sempre agli altri? Possibile che le altre mamme raccontino storie incredibile, piene di mostri, di pericoli, di guai, e la mia invece solo favolette per neonati, di quelle buone solo per far la nanna…”
Più ci pensava, più si arrabbiava. Lei ormai era grande – insomma, avrebbe o no compiuto sette anni tra poco? – ed era stanca di ascoltar storie che parlavano di bimbe giudiziose, principesse alla ricerca di principi favolosi, e folletti sempre pronti ad aiutare bambini sempre obbedienti… “e no eh – pensò ancora Stella – questa volta non ci sto… devo assolutamente inventarmi qualcosa… ma non c’è un modo per convincere la mamma? E non c’è proprio nessuno che possa aiutarmi?”… mentre pensava, però, Stella brontolava anche sotto voce, con una vocetta sottile sottile che la mamma non sentiva ma che in realtà arrivava lontano, tanto lontano da arrivare alle orecchie aguzze di uno gnomo dispettoso, tal Pilù. Pilù era un personaggio strano, viveva nascosto nelle pareti della casa di Stella e ogni tanto – spesso a dir la verità – si divertiva a mettere in atto scherzetti innocenti, tipo far sparire il righello, una gomma o una matita, nascondere un calzino – vi è mai capitato? Che poi magari lo ritrovate all’improvviso e proprio non si capisce come ha fatto quel calzino a infilarsi dentro la borsa… ecco, sono proprio gli gnomi dispettosi, che si divertono così!
Dunque, Pilù ascoltava lo sfogo di Stella. Lui stava quasi per addormentarsi, ma quel continuo borbottio proprio lo disturbava. Accidenti, cosa non avrebbe dato perché la smettesse! Aveva sonno, era stanco e lo aspettava una lunga giornata di giochi e scherzetti… “accipicchia – pensò – adesso basta!” Ed ecco l’idea: gli occhi, che aveva verdi verdi e un po’ allungati, si illuminarono di una luce strana. “Vuole un’avventura di quelle incredibili e pericolose? L’avrà!”
E senza pensarci troppo, Pilù mise in atto il suo proposito, schioccò le dita – lo sapete no che la magia di gnomi e folletti funziona così? – e l’avventura ebbe inizio…
Stella, che ancora rimuginava sempre più arrabbiata, si ritrovò avvolta dal buio, poi vide delle luci colorate vorticare attorno a lei e, senza capire cosa diavolo stesse accadendo, sentì un tonfo e uno schiocco… poi all’improvviso riuscì a guardarsi attorno: era in una immensa caverna oscura, un posto stranissimo che non aveva mai visto nemmeno nei suoi incubi più spaventosi. In alto, attaccati alle pareti di roccia, c’erano milioni di pipistrelli – “speriamo non siano vampiri” ebbe la forza di pensare la bimba – e tutto attorno a lei roccia, roccia e ancora roccia. Da lontano, si sentiva un sibilo strano, come un fischio trattenuto, e dalla stessa direzione arrivava una fioca luce rossa… Stella, che non sapeva se era più stupita o più spaventata, si sedette per terra, ovviamente sulla roccia… “ma dove sono finita, e come? Cos’è questa storia? Dov’è la mia cameretta, e la mia mamma…” La bimba era sul punto di piangere… immaginate un po’ se capitasse a voi! Ritrovarsi all’improvviso, e senza nessuna ragione, in un posto buio, freddo, sconosciuto e assolutamente deserto! Mamma mia! Io davvero non credo che farei altro che piangere! E voi?
Beh, quando Stella, infreddolita e spaventata, aveva ormai gli occhi pieni di lacrime e stava per scoppiare in un irrefrenabile pianto, si sentì una voce… “Ecco, volevi un’avventura? - ovviamente era Pilù il dispettoso! – eccola, tutta per te, su, fammi vedere di cosa sei capace!”
Stella, incredula, si guardò attorno, ma non c’era nessuno… ma ovviamente, essendo una bimba cocciuta non ci mise molto a prendere una decisione: “non so chi sei – disse infatti – e nemmeno cosa vuoi, ma non riuscirai a spaventarmi… adesso ti faccio vedere io!”
E si alzò, decisa a cavarsi da quell’impiccio senza dar soddisfazioni a quella voce antipatica!
E così, senza pensarci troppo – che se no sai la paura che l’avrebbe presa! – si avviò in direzione di quello strano sibilo e di quella luce rossastra che si vedeva in lontananza. Camminando cauta cauta, finì con l’arrivare davanti ad una grande apertura che sembrava dare su una grotta ancora più grande di quella dove si era ritrovata. Ancora un po’ timorosa, sbirciò oltre il bordo, attenta a non esporsi troppo – che non si sa mai cosa ci fosse là dentro!
E immaginate lo stupore, e la paura! quando vide, in una caverna davvero immensa, un enorme drago viola, tutto acciambellato nel suo nido – un mucchio di paglia e fieno, tanto grande da sembrare una montagna! – e circondato dai suoi servitori, una specie di orchetti dai denti aguzzi e ricoperti di pelo nero e giallo. Il sibilo che si sentiva era il drago che russava sommessamente, e la luce rossa erano i lampi provocati dal fuoco che usciva dal nasone ogni volta che buttava fuori il fiato. Stella fece un balzo, decisa a scappare il più lontano possibile… certo, era sì una bimba coraggiosa e aveva voglia di sentir di avventure pericolose, ma in una favola però, non con lei protagonista!
In quel mentre però il drago, che aveva un udito finissimo, si svegliò e strillò a tutti polmoni “chi disturba il mio sonno? C’è qualcuno qua, lo sento… fatti vedere o ti arrostisco e ti mangio in un boccone”
Stella, tremando, ci pensò solo un istante. Quella bestiaccia sembrava davvero capace di sputar tanto fuoco da trasformarla in uno spiedino! Bianca di paura, si affacciò all’apertura, e con voce sommessa disse “sono io, scusa… scusa ti prego ma non so come sono capitata qua…”
Il drago, con gli occhi fiammeggianti, rimirò la bambina, mentre gli orchetti saltavano in piedi pronti ad acchiappar l’intrusa. Stella non sapeva da che parte scappare, e non sapeva nemmeno se sarebbe servito… la caverna sembrava immensa, ma senza posti dove nascondersi, e poi quegli orchetti erano veloci e così numerosi…
“E dimmi un po’ – tuonò in quel mentre la voce del drago – tu chi saresti? E come ti permetti di disturbarmi? Non lo sai che i draghi amano molto i bambini… arrosto!” sghignazzò quel mostro.
Stella, balbettando un po’, cercò di spiegargli che non sapeva proprio come era finita lì, e che certo non voleva disturbare, che era molto dispiaciuta ma lei sapeva solo che fino a poco tempo prima era nella sua cameretta, con la mamma, e poi… puf, all’improvviso si era trovata in quel posto.
“E io dovrei crederti? Cosa ti fa pensare che non sappia che in realtà sei qua per rubarmi il mio tesoro? Non sono mica nato ieri, sai!” replicò il drago.
“Un tesoro? Ma io non ne so proprio niente, devi credermi, e certo non voglio rubartelo… lasciami andare, dimmi solo come faccio ad uscire da qua e a trovare la strada per casa mia…”
“Eh no! Non credere sia così semplice – tuonò il drago – sei qui, e adesso comando io. Sei venuta a disturbarmi, e non te la caverai così facilmente…”
“E cosa dovrei fare?” chiese Stella, ormai disperata.
“Fammi un po’ pensare – rispose il drago – così piccola e magrolina, non credo tu sia un buon bocconcino, quindi per ora non ti mangerò… ma se davvero vuoi andartene, devi darmi qualcosa in cambio, qualcosa di prezioso ed importante… Altrimenti, farò uno sforzo e ti sgranocchierò tutta!”
“Ma io non ho niente – rispose disperata Stella – come faccio?”
Gli orchetti, intanto, si preparavano ad acchiapparla: un gruppetto si stava avvicinando lentamente, mentre altri stavano preparando quello che aveva tutta l’aria di essere uno spiedo, si insomma, quei fuochi dove si cuociono gli arrosti… Stella era ormai prossima alle lacrime, mentre il drago cominciava a leccarsi il muso, pregustando quello che per lui era solo uno spuntino, ma pur sempre appetitoso…
All’improvviso, a Stella venne un’idea, l’unica che in quel momento poteva apparirle in mente… pensò alla mamma, e che forse non l’avrebbe mai rivista, e pensò a come le sarebbe mancata… “E se ti raccontassi una storia? Una favola di quelle belle, divertenti e fantasiose…” osò dire la bambina.
Il drago sembrò bloccarsi – anche se a dire il vero non è che si stesse poi muovendo – e una luce strana gli si accese negli occhi. “Una storia? E che roba è?”
“Ecco, devi sapere…” iniziò Stella. E raccontò di fate, principesse, gnomi e folletti… parlò e parlò, spiegò e ricordò… già, proprio una di quelle storie che la mamma raccontava sempre, così delicate e carine che proprio non facevano paura, senza mostri, draghi e orchi, e piena di bambine e bambini obbedienti e giudiziosi… parlò così a lungo, che alla fine la gola le faceva male, ma il drago sembrava proprio interessato. Quando la storia finì, con il più classico “e vissero felici e contenti” il drago aveva gli occhi lucidi, e tutti gli orchetti erano seduti per terra singhiozzando senza nessun pudore…
“Ma che bella cosa che mi hai donato – disse il drago – davvero non sapevo che esistessero cose simili… ma è tutto vero?”
“Io non lo so se è tutto vero – rispose Stella, ormai stremata – ma la mamma me la racconta sempre… la mamma… chissà come è preoccupata…”
“Io sono un drago vecchio e cattivo – disse allora il mostro viola – ma ho una parola sola, mi hai offerto un dono prezioso, un sogno che ricorderò sempre. E adesso sei libera”
“Grazie – singhiozzò Stella – ma anche se sono libera, come faccio a tornare a casa?”
In quel momento Pilù, che aveva seguito tutta la storia, schioccò le dita… e Stella si ritrovò nella sua cameretta, accucciata accanto alla mamma…
“Allora piccolina – disse in quel mentre la mamma – mi è venuta in mente una storia davvero paurosa, di quelle da far venire i brividi, te la racconto…”
“No mamma, no, ti prego – strillò Stella – basta avventure paurose… per oggi sai ne ho avute abbastanza”. E ad una mamma stupitissima, che proprio non sapeva cosa fosse successo, Stella chiese in un sussurro: “raccontami una storia magica, di quelle con tanti personaggi buoni e carini… ho proprio voglia di addormentarmi con un sorriso”.

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domenica 21 marzo 2010

Ciccio e Stellina

Torniamo, per una volta, nel "Paese delle Rose". Ve lo ricordate? Era quel fatato paese dove, tanti, ma proprio tanti anni fa, vivevano insieme maghi, fate, folletti, gnomi e animali sapienti, quel mondo dove la magia esisteva per davvero e l'inverno non sapevano neanche cos'era.
Ecco, proprio in quel magico paese viveva una fatina timida, Stellina, che pensava di non essere bella, brava e capace come tutte le sue sorelle. "Loro sì che sono fatine speciali - pensava - io invece…. A mala pena so volare, e se mi viene fame, non riesco a trovare il nettare…. Uffa, sono proprio incapace". E giù pianti a dirotto.
Un giorno che Stellina era più triste del solito, del suo pianto si accorse un piccolo passerotto curioso. Era piccolo perché era appena nato, ed era così cicciotto e carino che mamma e papà l'avevano chiamato, appunto, Ciccio.
"Cip - pensò, che per i passerotti vuol dire "accidenti" - chissà perché quella fatina piange". Ciccio saltò giù dal ramo dove mamma e papà avevano costruito il caldo e comodo nido, e si appoggiò su una spalla di Stellina. "Ehi - disse con la sua vocetta - che ti succede? Perché sei triste tu che sei così carina?".
Stellina, che non si era accorta di Ciccio, fece un gran salto a sentire la vocetta che le arrivava vicina vicina all'orecchio…. "Uh - esclamò - e tu chi sei?".
Ciccio, che non si faceva certo scoraggiare e la timidezza non sapeva nemmeno cos'era, rispose serio serio: "non mi vedi? Sono un passero, e voglio sapere perché una fata piange…. Ecco, adesso rispondimi".
Stellina, ancora un po' spaventata, cercò di trovare le parole: "beh, ecco, vedi, io…." Balbettò…. "Uffa - disse Ciccio - ma che è? Piangi e non sai perché? Allora sei proprio strana!". E incostante come tutti i passerotti volò via, deciso a tornare al caldo nel suo nido.
Stellina, a bocca aperta, lo vide allontanarsi e allora, per la prima volta, si sentì arrabbiata: "ma come - pensò - viene qui, mi spaventa, mi fa domande, e poi se ne va senza neanche ascoltare? Ma come si permette!".
Stellina allora spiegò le sue ali - che come tutte quelle delle fatine erano piccole e stellate, ma capaci di portarle in alto in un batter d'occhio - e inseguì Ciccio. Arrivata sul ramo, si avvicinò al nido: "Allora - disse arrabbiatissima - cos'è questa storia? Non volevi sapere? E adesso mi ascolti". E cominciò a raccontare. Per la prima volta Stellina spiegò che si sentiva piccola e incapace, che tutte le sue amiche erano fatine brave, belle e potenti e che lei invece non riusciva neanche a fare una magia piccola piccola…. "Vedi - disse - se io volessi cambiar colore a quel fiore proprio non saprei come fare, e invece le mie amiche…." E schioccò le dita, come a far capire che per le altre fatine tutto riusciva facile facile. Solo che, sorpresa!, il fiore da giallo diventò improvvisamente rosso! Stellina spalancò gli occhi incredula, e Ciccio - che non è che aveva capito molto - lanciò un grido, anzi, un CIIIIIIPPPP potentissimo.
"Ma, ma, ma…" balbettò Stellina… e provò di nuovo. E il fiore, che era diventato rosso, diventò bianco, poi azzurro, poi rosa….. "Basta adesso - strillò Ciccio - che mi confondi!". Stellina, felice, abbracciò il passerotto "Sei tu il mio portafortuna", esclamò. "Adesso ho capito come si fa, ma se tu non fossi arrivato…. Chissà se avrei mai imparato!"
Dall'alto dell'albero, un grande merlo saggio aveva osservato tutto e, sorridendo sotto i baffi - che anche i merli, specie se vecchi e saggi, hanno dei baffi - pensò tutto contento "ecco, ancora una volta è dimostrato: basta poco, basta un piccolo amico, e tutti i problemi si risolvono".
E forse è proprio da questa storia che è nato il proverbio che dice "chi trova un amico, trova un tesoro"…. Chissà!

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sabato 20 marzo 2010

Il Paese delle Rose

In un tempo lontano lontano, così lontano che nessuno si ricorda quanti secoli sono passati, esisteva una terra magica, un posto speciale dove vivevano insieme uomini, fate e folletti, elfi e gnomi, e gli animali sapevano parlare. Quel paese, che chiameremo "Paese delle Rose", non conosceva l'inverno. Era sempre estate, ma un'estate fresca, con nuvole color panna che volavano veloci nel cielo blu. Gli alberi, sempre verdi, regalavano frutta a volontà, e i fiori, sempre in boccio, coloravano il paesaggio di tutte le tonalità dell'arcobaleno. In quel magico paese vivevano due topolini, Gino e Gina. Erano due topolini speciali, come del resto ovvio nel "Paese delle Rose" dove nulla era come noi conosciamo. Gino e Gina erano fratello e sorella, e abitavano in una piccola casetta costruita con legno e foglie. Erano due topolini curiosi, che amavano girare per prati e boschi per scoprire cosa facevano gli altri esseri viventi, e qualche volta andavano a trovare le loro amiche fate per giocare tutti assieme.
Orbene, un giorno i due topini decisero di avventurarsi più lontano del solito. "Mi hanno detto - disse Gina - che al di là della collina c'è un grande castello. Che ne dici se andiamo a vedere com'è?". Gino accettò, preserono uno zaino nel quale misero un po' di formaggio - si sa mai che gli venisse fame! - una borraccia piena d'acqua e un po' di torce, che se arrivava il buio almeno avrebbero potuto avere un po' di luce.
I due topini si incamminarono, decisi a scoprire se davvero esisteva quello strano castello e chi ci abitava. Cammina e cammina, Gino e Gina arrivarono davanti ad un grande colle. Sulla cima, tutto ammantato da nubi, c'era un grandissimo castello, tutto grigio, con un sacco di torri e una enorme porta sbarrata. I due topini si guardarono un po' stupiti e un po' perplessi: "ma com'è che la porta è chiusa?" si chiesero. Perché dovete sapere che in quel magico paese mai nessuno chiudeva porte e finestre, i ladri non esistevano e poteva sempre capitare che un viaggiatore avesse bisogno di riposarsi un po' e di mangiare un boccone!
Gino e Gina studiarono la situazione, decisi a svelare il mistero di quel castello sbarrato. Gino scoprì all'improvviso che, in un angolino un po' nascosto, c'era una grande crepa: "magari da lì si può entrare" disse in un sussurro - che i due avevano cominciato a pensare che forse era meglio non farsi scoprire.
Così i due fratellini si infilarono nella crepa e camminando cauti finirono con l'entrare nel castello… Erano in una sala enorme, tutta piena di mobili grandissimi e con un sacco di scatoloni. Negli angoli, grandi ragnatele catturavano la luce e su tutto c'era uno strato spesso di polvere. "Oh bella - disse Gina - ma dove siamo finiti? Non sembra proprio una delle nostre case, e a dire il vero mi fa un po' paura"…
I due sentirono all'improvviso un rumore e decisero di non farsi vedere. Veloci come solo i topolini sanno essere si infilarono nello spazio tra due grandi scatole e misero fuori solo la punta del musetto per vedere chi sarebbe arrivato. Una porta si aprì, e nel grande salone entrò una figura strana: tutto vestito di nero, con un enorme cappello a punta e una barba lunga fin quasi ai piedi, arrivò il padrone del castello che altri non era che il mago Zazum.
Or dovete sapere che Zazum era uno strano abitante del Paese delle Rose, un mago dai grandi poteri che pensava di essere il più bravo, forte e capace di tutti, e per questo pensava di dover diventare il capo di quel magico paese. E così si era costruito quel castello, e aveva escogitato un piano per diventare il più forte di tutti: avrebbe raccolto tutti i tesori del Paese delle Rose, i frutti, i fiori e le pietre preziose, così che tutti gli altri abitanti sarebbero stati costretti a chiedere a lui ogni volta che avrebbero avuto bisogno di qualcosa. Da tanto, tanto tempo Zazum lavorava al suo piano e aveva già raccolto un gran tesoro - ecco tutti gli scatoloni che riempivano il grande salone - ma gli mancava ancora un particolare: per riuscire nel suo intento, doveva imprigionare la regina delle fate, Sarazan. Solo così avrebbe avuto tutto il potere nelle sue mani. Zazum pensava di aver ormai trovato il modo per catturare la fata: le aveva mandato un messaggio nel quale diceva di aver urgente bisogno di aiuto perché una splendida pianta di rose - di quelle che davano il nome al magico paese - stava morendo e lui non sapeva come fare. Sarazan sarebbe arrivata, e Zazum aveva preparato una gabbia magica nella quale imprigionarla. Solo che Zazum tutte queste cose se le disse ad alta voce - non aveva amici e allora parlava da solo, e ogni volta che doveva far qualcosa si ripeteva i suoi progetti - e così i due topini, allibiti, scoprirono il piano del mago. Gino e Gina decisero di intervenire, anche perché Sarazan era loro amica. Quando la fatina arrivò, il mago pronunciò una formula magica e con un gran lampo apparve la gabbietta che imprigionò la fatina. Zazum, ridendo cattivo, pensò di aver finalmente vinto e corse a prepararsi per presentarsi al Paese delle Rose come nuovo sovrano. I due topini, zitti zitti, si avvicinarono alla gabbietta e non senza fatica riuscirono a liberare Sarazan. "Dobbiamo far qualcosa - dissero poi - altrimenti Zazum continuerà a provarci!".
E Gino e Gina, con l'aiuto di Sarazan, cominciarono ad aprire tutti i pacchi, poi spalancarono una finestra e tutti i tesori tornarono al loro posto. Poi Sarazan si guardò intorno: "questo castello - disse - è proprio brutto". E con una parolina magica lo trasformò…. In una splendida capanna colorata! Zazum arrivò furibondo. Non aveva capito cos'era successo, ma quando vide la fata libera, e i due topini, lanciò un gran urlo "io, il più gran mago del mondo, sconfitto da delle pulci!". Poi, con un balzo, scappò via. Nessuno, da allora, lo vide mai più nel Paese delle Rose, ma tutti raccontavano la storia di due coraggiosi topolini che avevano salvato il mondo.

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giovedì 18 marzo 2010

La storia di Martina

C'era una volta, tanto tanto tempo fa, un paese piccolo piccolo….
"Uffa mamma! Ma sempre così me le racconti!!!" sbuffò Martina, scocciata per quel "c'era una volta".
"Ma come - disse la mamma, stupita - non ti piacciono le mie storie?"
"Ma no, solo che insomma, fate, principesse, gnomi… ma davvero non ne sai altre?". La mamma guardò la sua bimba, il visetto tutto corrucciato: "ma, Martina, io queste so, perché tu ne sai altre?"
Martina ci pensò su un istante, poi seria seria iniziò a spiegare:
"Vedi mamma, io volevo sapere la storia di quel robot che un giorno decise di andare al supermercato…."
"Ma io quella storia non la conosco, bimba mia" rispose la mamma.
"Ma dai, possibile, ecco facciamo una cosa, allora questa sera la favola te la racconto io". E Martina iniziò a raccontare:
qualche giorno fa, non molti a dire il vero, un grande robot - che lo sai mamma che il robot è un uomo di ferro, vero? - di nome Giobbe decise che voleva andare a fare la spesa al supermercato. Non è che gli serviva qualcosa, i robot si sa non mangiano, e nemmeno usano i vestiti, solo che voleva capire come mai i suoi amici umani andavano sempre a far la spesa, e sembravano pure felici.
Giobbe si incamminò, che lui non sapeva guidare, ma appena uscito di casa si accorse che c'era un problema: nessuno gli aveva spiegato dove diavolo era quel supermercato dove tutti andavano….
"Ma Martina - interruppe la mamma - spiegami una cosa, dove viveva quel robot? E chi lo aveva costruito?"
"Uffa mamma, che ti importa? - rispose Martina - io ti chiedo mai chi sono fatine e gnomi dei quali parli sempre? La favola è favola, altrimenti che favola è!"
E sbuffando riprese il racconto:
Allora Giobbe provò a chiedere informazioni. Sulla strada incontrò una signora che teneva al guinzaglio un cagnolino bianco e nero. "Scusi signora - disse Giobbe con il suo vocione da robot - saprebbe dirmi…."
Solo che a quel punto il cagnolino iniziò ad abbaiare disperato, spaventato dal quel grande uomo di ferro, che lui una cosa così non l'aveva mai vista. La signora a sua volta strabuzzò gli occhi e, spaventata ma decisa a non darlo a vedere, cominciò ad allontanarsi veloce.
Giobbe rimase a guardarla, stupito; "Ma che ho fatto?" pensò un po' triste. Poi si guardò attorno per vedere se c'era qualcun altro a cui chiedere informazioni. In quel momento stava arrivando un vigile. "Ecco, lui di sicuro mi aiuterà", si disse Giobbe.
Solo che il vigile, scorto il robot, cominciò a fischiare come un dannato con il suo fischietto per chiedere aiuto….. FIIIIIIIII FIIIIIII FIIIIIII
Chissà cosa aveva pensato, forse che Giobbe fosse un malfattore scappato da una prigione!!!!
Giobbe, spaventato da quel fischio, iniziò a correre, deciso ad allontanarsi il più possibile da quel rumore infernale.
Correndo, finì in un grande parco dove nonni e bambini stavano giocando sulle giostre. "Uffa - pensò Giobbe - ma che giornata… possibile che nessuno mi voglia aiutare?"
In quel mentre un bimbo piccolo piccolo, di nome Simone, si avvicinò incuriosito al grande robot. "E tu chi sei?" chiese con la sua vocetta.
Giobbe, che non aveva mai visto un bambino….
"Ma dai, com'è possibile che non avesse mai visto un bambino?" chiese all'improvviso la mamma
"E perché continui ad interrompermi, mamma!" sbottò Martina. "Comunque - disse - non aveva mai visto un bambino perché non era mai uscito di casa prima, e adesso lasciami finire"
Dicevo, Giobbe, che non aveva mai visto un bambino, si chinò incuriosito. "E tu cosa sei?" chiese con il suo vocione
"Io sono Simone, e tu?"
Giobbe si presentò, e poi fece la sua domanda. "Ma tu lo sai dov'è il supermercato?"
"Eh, io no - rispose Simone - però la mia mamma ci va sempre. Mi sa che è lontano lontano, perché lei ci mette sempre un sacco di tempo, a fare la spesa"
Giobbe a quel punto aveva ormai perso ogni speranza… con lo sguardo triste decise che era meglio tornarsene a casa. "Mi sa che i supermercati - pensò - non sono fatti per noi robot…."
Mogio mogio, salutò Simone e riprese la strada di casa - attento però a non incontrare un'altra volta quel vigile e il suo fischietto. A casa lo aspettava il suo amico Giacomino - che in realtà era un omone grande e grosso, e non si sa perché lo chiamavano Giacomino, ma tant'è - che gli chiese dov'era stato. Giobbe raccontò la sua avventura e Giacomino, ridendo come un pazzo, gli disse "Giobbe, Giobbe, ma basta chiedere! Domani, promesso, ti porto io al supermercato, così vedrai come funziona!"
…. "Ma…. Mamma!!!!! - esclamò Martina all'improvviso - che fai?"….. SSSSSSHHHHHH…. La favola di Martina era così carina che la mamma….. si era addormentata!!!!! Buona Notte!

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martedì 16 marzo 2010

Il grande Crash




Macchia, Ciccolino e Zolletta erano abbacchiati. Sul pianeta Esperia stava ormai arrivando l'inverno, fuori faceva freddo, tirava vento e pioveva a catinelle. E il risultato era che i tre cuccioli erano costretti a restar chiusi in casa, cosa che a tre monelli come loro proprio non piaceva.
"Uffa - brontolava Macchia - mi annoio". "Accidenti - rispondeva Ciccolino - non mi piace stare in casa". "E a me - diceva Zolletta - tutto questo star fermi fa venire una gran fame…"
Insomma, si stavano davvero annoiando e si sa, quando tre monelli si annoiano, allora si che è un guaio!
E infatti, improvvisamente Macchia saltò su strillando "ma certo! Perché non ci abbiamo pensato prima? Fuori piove, è vero, ma possiamo sempre giocare nel cortile del signor Ugo… lì c'è una bella tettoia e la pioggia proprio non ci arriva!"
"E' vero - strillarono Ciccolino e Zolletta - presto dai, prendi la palla!"
Il cortile del signor Ugo era un posto speciale… il signor Ugo era infatti un vicino dei tre cagnolini che aveva costruito una gran tettoia di legno proprio accanto alla sua casa, non lontana da quella dei tre. Lì sotto, il signor Ugo teneva la sua collezione di animaletti in vetro, che amava tantissimo e considerava il suo tesoro. Per questo non voleva che i cuccioli giocassero in quel cortile… e per questo invece i cuccioli, monelli com'erano, non vedevano l'ora di intrufolarsi in quel posto proibito!
E così Macchia, Ciccolino e Zolletta studiarono un piano: senza far rumore, infilarono le giacche, poi controllarono la mamma - che stava preparando la cena e quindi era impegnatissima - e zitti zitti guadagnarono la porta. Una volta fuori, corsero velocissimi fino al cancello del signor Ugo. Anche qui, controllarono che nessuno li stesse guardando e poi con tre gran salti entrarono nel cortile.
Dove, ovviamente, la pioggia non arrivava, e così i tre iniziarono una magnifica partita a palla…
Tra strilli, calci e risate, i tre fratellini si stavano divertendo un mondo. Solo che la sfortuna, si sa, prima o poi ci mette sempre lo zampino… ed ecco che Macchia fece un gran tiro, Ciccolino cercò senza riuscirci di bloccare il pallone e Zolletta ci mise del suo, con un altro calcetto che, sfortuna sfortunaccia, infilò la palla dritta dritta, e a gran velocità, contro l'armadietto che custodiva tutti i preziosi animaletti di vetro del signor Ugo.
E così, sotto gli occhi spaventati dei tre, il pallone picchiò e…. CRAAAAASSSHHHH…. L'armadietto si ribaltò, gli animaletti finirono a terra, il vetro si frantumò…
I tre si guardarono attorno spaventatissimi ma non fecero nemmeno in tempo nemmeno a iniziare a pensare a cosa fare che la porta del signor Ugo si spalancò, e il signor Ugo in persona, tutti i capelli dritti in testa e gli occhi spalancati, esclamò "Che è? Che è successo? Che è stato?"… Poi vide i suoi preziosissimi e amatissimi animaletti, sparsi per terra e in frantumi…
"Ahhhh - gridò tristissimo - chi è stato? I miei tesori…"
Quando alzò gli occhi, vide i tre fratellini che, tremanti, cercavano di non farsi notare…
"Voi, siete stati voi…" bofonchiò, talmente arrabbiato da non riuscire nemmeno a trovare le parole..
In quel momento mamma Baba, attirata dalle urla, si affacciò alla finestra e quando vide quello che stava succedendo, capì subito che i suoi tre monelli avevano combinato un altro guaio guaioso. Mamma Baba si precipitò nel cortiletto, arrabbiatissima: "che è successo? - strillò - che avete combinato?"
Il signor Ugo, tutto rosso dalla rabbia, spiegò "lo vede, mi hanno distrutto tutti i miei tesori… è un disastro, una tragedia"
"Bambini - disse mamma Baba - ma quante volte ve lo devo dire? Come avete fatto?"
I tre, con i musetti in giù e gli occhi pieni di lacrime, neanche provarono a inventar scuse… "è stato un guaio, mamma - dissero a mezza voce - non volevamo…"
"Lo so che non volevate - disse mamma Baba - ma il fatto è che sapevate benissimo che qui, in questo cortiletto, non dovevate proprio venire… questo vi costerà un gran castigo…" Mamma Baba ci pensò un istante, e poi disse "per un mese intero non uscirete di casa, e niente dolci, e farete tutti i lavori di casa senza fiatare…"
I tre, con le orecchie che sembravano quasi voler toccare terra tanto si sentivano colpevoli, non osarono fiatare…
"Ma non è finita qui - disse ancora mamma Baba - perché adesso tocca al signor Ugo. E' a lui che avete combinato un gran guaio, e lui solo può dire come dovrete rimediare…"
Il signor Ugo, con le lacrime agli occhi, guardò i suoi animaletti, e poi i cuccioli. "Ormai è fatta - disse triste triste - i miei animaletti non ci sono più, ma dovete imparare che certe cose non si fanno… comincerete con il pulire tutto, portando via i vetri e stando ben attenti a non farvi male. Poi vedremo… nel frattempo questa - disse indicando il pallone - me la prendo io". E afferrata la palla, se ne tornò in casa…
I tre monelli, mogi mogi, si misero all'opera e, armati di scope e palette, ripulirono tutto. Intanto però Ciccolino continuava a pensare "chissà che altro ci chiederà il signor Ugo… eh si, ha ragione, ma già la mamma ci ha messi in castigo… chissà se possiamo far qualcosa per rimediare…"
Pensa che ti ripensa, a Ciccolino venne in mente quello strano personaggio che avevano conosciuto solo pochi giorni prima… si, lo gnomo Pinco, ma soprattutto la ninfa Lalla. "Ah se potessi chiamarla - pensava Ciccolino - lei ha un sacco di magia, magari potrebbe aiutarci… il signor Ugo è così triste per i suoi animaletti…"
E mentre pensava a Lalla, ci pensava così forte che un pensiero prese il volo, e volò volò volò fino al fitto del bosco, e colpì in pieno Pinco che, nella sua nuova casa a fungo, si alzò di scatto e corse a chiamar Lalla.
Ed ecco che in un baleno, nel cortiletto apparve uno sbuffo… e Pinco e Lalla erano proprio là!
I tre fratellini, increduli, raccontarono quello che era successo. "Il castigo ce lo meritiamo - disse Macchia - ma il povero signor Ugo… l'ho visto, sapete, stava proprio piangendo… non possiamo far qualcosa?"
Lalla, che come tutte le ninfe sapeva leggere nel cuore degli esseri viventi, si accorse che i tre fratellini erano si dei gran monelli, ma erano anche buoni e davvero preoccupati per il signor Ugo. E così, con un battito di ciglia, compì ancora una volta la sua magia… tutti i cocci cominciarono a danzare nell'aria e poi, accompagnati da quella dolce musica che sempre circonda le ninfe, cominciarono ad unirsi.. incredibile… nel giro di pochi minuti ecco che tutti gli animaletti del signor Ugo tornarono a risplendere, al loro posto nell'armadietto. E, sentendo quella dolce musica, il signor Ugo tornò ad affacciarsi dalla porta. E si stropicciò gli occhi, e se li ristropicciò un'altra volta… "Ma ma ma…" balbettò incredulo.
I tre fratelli, felicissimi, lo presero per mano e gli fecero vedere gli animaletti: "ecco - disse Ciccolino - tutto è tornato a posto. Ma, signor Ugo, adesso promettiamo che non verremo mai più a giocare a palla nel cortile!"
Ugo, che proprio ancora non ci credeva, neanche rispose, e rimase incantato a rimirare i suoi tesori mentre i tre fratellini, quatti quatti, uscivano dal cancello per tornarsene a casa. "Grazie Lalla - dissero poi - davvero sei stata generosa e gentile… promettiamo che non combineremo più guai…"
Lalla e Pinco però scoppiarono a ridere: "si, sappiamo che non volete combinare altri guai, ma insomma… sappiamo anche che siete anche dei gran monelli birichini… a dire il vero, c'è una cosa che dovreste prometterci: almeno, cercate di ubbidire alla mamma…"
"Si si, va bene - strillarono i tre - lo faremo, promesso"… e corsero di gran carriera a casa dove mamma Baba li aspettava, e dove li aspettava anche il castigo… ma quella del castigo è davvero un'altra storia!

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domenica 14 marzo 2010

I tre monelli

Mamma Baba era preoccupata. I suoi tre piccoli, Macchia, Ciccolino e Zolletta, sembrava ne stessere inventando un'altra delle loro. I tre, che se non lo sapete erano tre cagnolini molto ma molto simpatici ma anche molto ma molto birichini, erano spariti e mamma Baba non li vedeva più da troppo tempo per non pensare che stessero combinando qualche guaio. E a dir la verità, le cose stavano proprio così! I tre infatti avevano deciso di esplorare il bosco che si vedeva dalla loro cuccia, un bosco che ad esser sinceri non è che era poi tanto grande, ma a loro, piccoli come erano, sembrava immenso. Avevano aspettato che mamma Baba si distraesse - aveva da preparare la pappa per la sera - e zitti zitti erano usciti, armati di zaini stracolmi di cose buone da sgranocchiare, bastoni per aiutarsi a spostare rami e cespugli e, ovviamente, scarponcini alle zampine…
Ah si, vero, non ve l'ho detto… non erano proprio tre cuccioli normali perché ancora una volta siamo in un posto un po' magico… no, non il Paese delle Rose, lì non mi sembra ci siano cagnolini… forse! No, comunque, era un posto quasi uguale al nostro mondo, ma anche lì, ovviamente, c'era un po' di magia - altrimenti che favola sarebbe! - e tutti gli animali sapevano parlare. Ecco, quel posto era un pianeta lontano lontano, che i suoi abitanti chiamavano Esperia… se nelle notti stellate guardi attentamente, forse riesci a vederlo: è un puntino brillante che ogni tanto sembra colorarsi di verde…
Comunque, torniamo alla nostra storia. Macchia, Ciccolino e Zolletta erano ormai lontani da casa, ben felici di non esser stati scoperti da mamma Baba e decisi più che mai ad esplorare quel bosco che a loro sembrava così grande e pauroso.
Macchia, che si chiamava così perché aveva il pelo bianco latte con tantissime macchiette nere, era il più grande dei tre, e per questo voleva sempre comandare lui. "Ecco - disse infatti - adesso abbiamo camminato abbastanza. E' ora di fermarsi e fare un po' di merenda".
"Ma non siamo neanche arrivati al bosco! Non puoi già esser stanco!" esclamò Ciccolino, il più saggio e coraggioso dei tre fratellini. Ciccolino, che aveva il pelo marrone chiaro e gli occhi verdi che sembrava quasi un gatto, era assolutamente deciso ad arrivare al bosco il più in fretta possibile.
"No, no, ha ragione Macchia - esclamò Zolletta, che si chiamava così perché era golosissimo, e per lui ogni occasione era buona per far merenda! - fermiamoci un po' a mangiare, giusto il tempo di far due assaggi…"
I tre cominciarono a litigare, ognuno convinto di aver ragione, e mentre litigavano e strillavano e cercavano di convincersi, continuavano a camminare. Senza però guardare dove stavano andando. E così non si accorsero che nel bosco c'erano arrivati per davvero, ma che avevano anche perso il sentiero!
E tra strilli, grida e minacce, andarono avanti per un bel po', fino a quando Zolletta, sempre più affamato, si guardò attorno: "Ehi - strillò - ma dove siamo finiti adesso?"
Tutto attorno a loro c'era il bosco, fitto e buio… s'erano addentrati troppo, ed erano finiti in una valle lontana che nessuno conosceva!
"E adesso che facciamo?" disse Macchia, che pensava di essere il capo ma in realtà non è che fosse proprio il più coraggioso e forte dei tre!
"Aspettate - disse Ciccolino - fatemi pensare…"
Ciccolino si sedette per terra… solo che finì proprio sopra un gran fungo che si spiattellò tutto… "Ehi - strillò una voce stizzita - che fate? Quella era casa mia! E adesso, come faccio!"
I tre si guardarono attorno e videro, dietro una foglia, spuntare un gran cappello a punta, poi un nasone bitorzoluto, e infine uno gnomo tutto rosso dalla rabbia…
"Scusa, davvero scusa - esclamò Ciccolino - non l'ho certo fatto apposta. E' stato un incidente… farò tutto quello che posso per rimediare…"
"Sarà meglio - esclamò lo gnomo, un po' rabbonito ma neanche poi tanto - perché altrimenti vi trasformo in tre topi di campagna…"
"No, no - esclamarono i tre - topi no, noi siamo cagnolini, e ci piace tanto! Dicci cosa dobbiamo fare…"
Lo gnomo, che era molto arrabbiato ma in fondo non era cattivo, ci pensò un po' su e poi, con un gran sorriso, esclamò "non dovete far altro che aiutarmi a trovare un altro fungo-casa!"
Beh, facile a dirsi, ma di funghi così grandi non è che ce ne erano poi tanti in quel bosco… per fortuna i tre fratellini erano, appunto, cagnolini e si sa, i cagnolini hanno un segreto: un gran fiuto che li aiuta in un sacco di cose! I tre cominciarono così ad annusare, e annusa di qua, annusa di là, Zolletta, che essendo il più goloso aveva anche imparato a usare meglio quel dono, ad un certo punto esclamò "ecco! Trovato!"
E partì di gran carriera, seguito dai fratelli e dallo gnomo. Dopo una gran corsa, arrivarono in una radura, e proprio al centro c'era un fungo enorme, marrone chiaro, con tanti pallini rosati… "Bellissimo - disse lo gnomo, che si chiamava Pinco - questo si che mi piace! Ed è anche più grande della mia vecchia casa!"
"Allora, se tutto è a posto, noi torneremmo a casa…" disse Macchia, che si era accorto che ormai stava calando la sera. "Si si - fece Ciccolino - solo che… dove siamo finiti?". Preoccupati, i tre si guardarono attorno: proprio non riconoscevano nulla, altro che esplorare il bosco! Si erano persi!
Pinco allora, che come detto in fondo era molto gentile, fece un gran sorriso e disse "non vi preoccupate, vi aiuto io"
"Grazie - esclamarono i tre - ma il problema è che se arriviamo con il buio, questa volta la mamma si arrabbia sul serio!"
Pinco si fece serio serio… "eh no, non va bene se la mamma si arrabbia… fatemi pensare… ma certo! Aspettate!" e sparì in un baleno.
I tre cuccioli monelli si guardarono stupiti e sempre più preoccupati. "Quello ci ha abbandonati - strillò Macchia - e adesso che facciamo?"
Quando stavano ormai quasi per piangere, con un altro sbuffo tornò Pinco. "Eccomi, e ho trovato la soluzione!" disse ridendo. Con lui, infatti, c'era uno strano personaggio. Sembrava una bambina, ma più piccola, con i capelli neri lunghi lunghi e gli occhi ancor più neri che brillavano di mille stelle. Era tutta vestita di foglie e fiori, e sulle spalle aveva due aluccie dorate che battevano veloci veloci diffondendo una musichetta dolce. "Ecco - disse Pinco - lei è Lalla, la mia amica ninfa.. lei vi può aiutare…"
La ninfa, infatti, aveva una magia potente, e senza neanche pensarci un attimo, chiuse gli occhi e battè le manine… puf! In un istante i tre fratellini, che ancora non avevano ben capito cosa stava succedendo, si ritrovarono davanti alla porta di casa…
In quel momento mamma Baba, che ormai era preoccupatissima, uscì e quando li vide tirò un gran sospiro di sollievo. "Siete qui? Ma dove siete stati - chiese - vi ho cercato tutto il pomeriggio…"
"Eh, eravamo in giro - risposero insieme i tre - niente di speciale, abbiamo giocato un po'…"
"Niente guai oggi?" chiese stupita mamma Baba.
"No dai mamma, niente guai - rispose ridendo Ciccolino - ma per chi ci hai preso?".
E anche Macchia e Zolletta scoppiarono a ridere. La mamma li guardò un po' strana, "non me la state raccontando giusta" disse, dato che le mamme, anche le mamme cagnoline, riescono sempre a capire i loro piccoli.
"Ma tant'è - disse ancora mamma Baba - siete qui e state bene, per questa volta non indagherò… adesso di corsa a lavarsi, che è quasi ora di mangiare"
I tre obbedirono veloci veloci, felici di essere tornati a casa… ma quel bosco… accidenti che avventura, pensavano… e già sognavano di trovare il modo per tornare da Pinco e dalla ninfa… e chissà se ci riusciranno!

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sabato 13 marzo 2010

Le posate di Lucia

Tanto tanto tempo fa, in un paese lontano, viveva una bimba di nome Lucia. Era una bella e brava bimba, obbediente e carina, ma c'era una cosa che preoccupava la sua mamma: Lucia proprio non voleva mangiare la pappa. La mamma si inventava piatti stuzzicanti e deliziosi, colorati e profumati, ogni giorno diversi, ma Lucia ogni volta storceva il naso e ripeteva "non ho fame, mangio domani".
La mamma era preoccupata e un giorno, quando proprio Lucia non assaggiò neanche un boccone, la mamma si sedette su un grande sasso in giardino, disperata. La mamma piangeva e sospirava e pensava "quella bimba non mangia niente, non so più cosa inventare, ma se continua così finirà con l'ammalarsi"…
A un certo punto, tra un singhiozzo e l'altro, la mamma sentì una vocina: "che ti succede, come mai piangi?". La mamma si guardò in giro, ma non vide nessuno. Allora pensò di aver sognato e riprese a singhiozzare. "Ma perché non mi rispondi? Sei così disperata, mi piacerebbe aiutarti", tornò a farsi sentire la vocetta.
A quel punto la mamma scattò in piedi, spaventata…. Ma chi era che parlava? Guardando con attenzione, vide una grande foglia muoversi. "Ma non c'è vento" pensò la mamma, che guardò con più attenzione. Ed ecco che da sotto la foglia spuntò un gran naso, una lunga barba, e un gran cappello a punta…. Sorpresa delle sorprese, era uno gnometto!!!! "E tu chi sei?" chiese allora la mamma. "Mi chiamo Lino - rispose lo gnometto - e vivo in questo giardino. Ma tu non mi hai risposto…."
La mamma allora raccontò la sua storia, spiegò che era terribilmente preoccupata perché la sua Lucia mangiava poco e niente, e non c'era nulla che sembrava stuzzicarla. "E' una bimba tanto brava - disse - ma sta diventando sempre più magra. Ho paura che finirà con l'ammalarsi…"
Lino lo gnometto si strofinò pensoso la barba. "Aspettami qui, forse ho io la soluzione". E con uno sbuffo improvviso - gli gnometti si sa sono velocissimi! - sparì nel nulla. La mamma tornò a sedersi sul grande sasso, e aspettò e aspettò e aspettò…. Passò un tempo che sembrava infinito, e la mamma stava ormai per tornarsene a casa quand'ecco che un nuovo sbuffo annunciò il ritorno di Lino. "Eccomi qua - disse lo gnometto che in mano reggeva a fatica un grosso e lungo pacchetto - vedrai che adesso ogni tuo problema sparirà". E consegnò il pacchetto alla mamma che, sorpresa, lo aprì: dentro c'erano una forchetta, un cucchiaio e un coltello, i manici finemente intarsiati con farfalle e colibrì. "Queste - spiegò Lino - sono posate speciali, dalle a Lucia, e vedrai".
La mamma tornò a casa in tempo per preparare la cena, apparecchiò la tavola e mise, al posto di Lucia, le nuove posate. Poi chiamò la bimba. "Lucia, vieni, è pronto, questa sera spaghetti al pomodoro…" Lucia arrivò strascicando un po' i piedi, "mamma, sai, non è che ho tanta fame…."
Ma siccome era una brava bambina, si sedette a tavola e provò ad assaggiare. Ed ecco che le posate rivelarono la loro magia. Come Lucia portò uno spaghetto in bocca, scoprì di essere affamatissima, e in un batter d'occhio finì tutta la pasta. Poi chiese alla mamma incredula "ma di secondo mi hai preparato qualcosa?". E la mamma portò carne e verdura, e Lucia sbafò ancora una volta tutto!!! E così, da quel giorno, ogni volta che Lucia si sedeva a tavola e usava le sue posate, mangiava di gusto e con gran appetito, tanto che nel giro di pochi giorni torno forte e allegra come era stata un tempo. La mamma, felicissima, continuò ad usare le posate fino a quando Lucia, ormai grande, si sposò e diventò mamma a sua volta. E a quel punto, tanto per non correre rischi, Lucia regalò quelle magiche posate alla sua bimba!

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venerdì 12 marzo 2010

Il gattino Luca


Questa è la storia di un gattino di nome Luca che viveva, con la sua mamma ed il suo papà, in una casetta piccola piccola, in una città piccola piccola. Un giorno Luca si svegliò dopo aver fatto tanta nanna, e si guardò intorno per cercare la sua mamma. Ma la mamma non c'era. Luca allora guardò in camera, ma la mamma non c'era. Guardò in bagno, ma la mamma non c'era. Guardò in cucina, ma la mamma non c'era. "Sarà fuori in giardino" si disse il gattino. Ma la mamma non c'era nemmeno lì. Luca allora decise di andarla a cercare. Uscì dal cancello e incontrò un poliziotto tutto vestito di blu. "Scusa - gli chiese - sono il gattino Luca, hai visto la mia mamma?". "No gattino Luca - rispose il poliziotto - mi spiace ma oggi non l'ho proprio vista. Prova a chiedere al negozio".
E Luca andò al negozio, dove c'era una signora tutta vestita di rosso. "Scusa signora - disse Luca - hai visto la mia mamma?". "No mi spiace - rispose la signora - oggi proprio non l'ho vista. Prova a chiedere al ristorante". E Luca andò al ristorante, dove c'era un cuoco tutto vestito di bianco. "Scusa signor cuoco - chiese ancora Luca - hai visto la mia mamma". "Mi spiace ma oggi proprio non l'ho vista - rispose il cuoco - prova a guardare al parco". Luca andò al parco dove c'erano tante mamme e tante nonne con i loro bimbi, e a tutte Luca chiese "Scusa, hai visto la mia mamma?". Nessuno però l'aveva vista. Luca si accorse che ormai stava per diventare buio, e così decise di tornare a casa.
"Sicuramente il mio papà è ormai tornato - si disse - e lui lo saprà sicuramente dove è andata la mia mamma". E così Luca rifece tutta la strada all'incontrario. Attraversò il parco, passò davanti al ristorante, davanti al negozio, salutò il poliziotto, entrò nel giardino, aprì la porta di casa e…. sorpresa!!! Ad aspettarlo c'era la sua mamma!
"Luca - disse la mamma - dove sei stato tutto questo tempo? Ero preoccupata". "Ma mamma - rispose Luca - ero io che ero preoccupato, mi sono svegliato e non ti ho trovato!".
La mamma scoppiò a ridere e disse: "ma te lo avevo detto che dovevo andare a lavorare, ma che poi sarei tornata!!!". "E' vero - disse Luca dandosi una gran zampata sul musetto - me l'ero proprio dimenticato. E mi sono anche dimenticato di mangiare la pappa".
La mamma allora lo prese in braccio, lo portò a fare un bagno perché era tutto sporco e poi, ripulito e con un pigiamino fresco fresco, lo accompagnò a tavola, dove c'era il papà che li stava aspettando. Mentre mangiavano la pappa, Luca raccontò a mamma e papà le avventure di quel giorno, poi finito tutto, la mamma e il papà lo accompagnarono a nanna e gli diedero il bacio della buona notte. E Luca si addormentò sicuro che, al mattino, la mamma sarebbe stata lì con lui.

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I disegni

Piccola (mica tanto!) precisazione: i disegni non sono miei... io la matita in mano proprio non la so tenere... sto utilizzando le illustrazioni a due dei volumetti pubblicati, "Sogni di carta" (il primo, da cui il nome del blog, titolo proposto da mia figlia...) illustrato da Christian Frosi e Silvia Alfei.
Il secondo, "Piccole storie per mamme e bambini", disegnato da Omar Simini.
Tre disegnatori bravissimi, che in assoluta autonomia (non conosco personalmente nessuno dei tre...) hanno saputo interpretare magistralmente le mie storie. A loro va ancora il mio grazie, con la speranza di non offenderli continuando ad usare i loro splendidi disegni.

giovedì 11 marzo 2010

La fata Nannona



C'era un volta, tanto tanto tempo fa in un paese lontano, una fata di nome Nannona. Era piccola e delicata, i lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri, ma soprattutto una bacchetta magica davvero speciale, tutta d'oro e d'argento, con la quale andava in giro per il mondo a portare la nanna ai bambini. Con la sua bacchetta toccava delicatamente le spalle ai bimbi: “sono la fata Nannona - diceva in un sussurro - adesso ti tocco giù, e la nanna fai tu”.
A quel tempo però esisteva anche una strega cattiva, la strega Roberta, da sempre gelosa di Nannona. Roberta voleva la bacchetta magica, la voleva disperatamente ed un brutto giorno escogitò un trucco per riuscire a rubarla. Con una magia si trasformò in una bimba e poi aspettò l'arrivo di Nannona. Quando la fata arrivò e fece per toccarle la spalla con la bacchetta, con una mossa velocissima la afferrò e poi svanì nel nulla, con uno sbuffo di fumo, portandosi via la bacchetta magica.
Nannona era disperata, adesso i bambini del mondo non avrebbero più potuto fare la nanna. La fata piangeva e piangeva, pensando ad un modo per riprendersi la bacchetta.
Per fortuna, la sentirono due furbi topolini, Nino e Nina. Uscirono dalla loro casetta e si fecero spiegare cos'era successo. Nannona, tra i singhiozzi, raccontò loro ogni cosa. “Non ti preoccupare - dissero in coro Nino e Nina - ci penseremo noi”. E si avviarono verso il grigio castello della strega Roberta.
Qui arrivati, si nascosero in un buchetto nel muro e spiarono Roberta che si pavoneggiava davanti ad uno specchio con la sua bella bacchetta rubata. I due topolini aspettarono pazienti che Roberta si stancasse. Quando finalmente la strega decise che era ora di andare a mangiare, appoggiò la bacchetta su una cassapanca, sicura che nessuno l'avrebbe potuta prendere. Ma i due furbi topini, quatti quatti e silenziosi come solo i topolini sanno essere, l'afferrarono veloci e scapparono via. Quando Roberta, tra urla e schiamazzi, fulmini e fiamme, si accorse che la bacchetta era sparita, loro erano ormai lontani. Tornarono così dalla fata Nannona che li accolse felice. “Eccoci qua - dissero - hai visto che tutto si è risolto?”. E la fata, per ricompensarli, regalò loro una scorta di formaggio per un anno intero, e poi tornò a fare il suo giro nel mondo, per portare la nanna a tutti i bimbi stanchi.

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Una storia piccola

Barbara Sanaldi Maria Bacchetti
PENSIERI
C’è chi dice che scrivere una storia in prima persona, autobiografica, sia più facile. Si raccontano fatti, c’è un prima, un durante e un dopo. Vero. Ma se la storia ti ha segnato profondamente, anche ripercorrerla fa male. E se di quella storia si hanno solo ricordi frammentati, brandelli di dolore, impressioni nate da allucinazioni, allora le difficoltà lievitano a dismisura. Ecco, questa è la mia storia. E la racconto nell’unico modo che posso, a brandelli, come a brandelli è ancora oggi la mia memoria. Raccolgo emozioni, sensazioni, paure. Parole gettate d’impulso in momenti diversi, quando la mia testa ha ricominciato a funzionare ma ancora mi sembrava così lontano il traguardo cui aspiravo, il vero ritorno alla vita. E per contro, il lucido, lungo, emozionato ed emozionante racconto scritto da mia zia, uno dei tanti angeli che mi hanno seguita passo dopo passo in quegli oltre due mesi di ospedale. A lei il compito di dare un senso, una logica, a tutto quello che è successo. Io non posso, io ho solo piccoli pezzi, momenti, frammenti privi di un qualsiasi ordine cronologico. La parola scritta è sempre stata, per me, ragione di vita. E la parola scritta è tornata presto, a poche settimane dall’uscita dall’ospedale, con fatica, con rabbia. Ma ne avevo e ne ho bisogno. Ho sempre raccontato storie, per lavoro e per passione. Ma erano storie altrui, frammenti di vita che mi toccavano solo marginalmente. Mai avrei pensato di raccontare la mia storia, mai ho immaginato l’urgenza di mettermi a nudo, di scavare, di piangere lottando con parole che ho chiare in mente ma non appaiono sul foglio. E invece sono qui, ci provo. Provo a mettere un minimo di ordine in una serie di brandelli che affollano la mente ormai da anni. Con la consapevolezza di essere una fortunata, una “miracolata” come sostiene uno dei medici che mi ha seguita. Termine che io, da sempre agnostica, ho accolto quasi con sollievo. Miracolata. Perché in fondo, i miracoli esistono davvero.
Ci sono un prima e un dopo. Ecco, e poi magari anche un durante. Bella fiera della banalità! Bella forza. Ovvio, nella vita ci sono sempre un prima, un durante e un dopo, che razza di scoperta. Solo che se quel prima e quel dopo ti appartengono, continui a pensare si tratti di questione speciale. E mettici che se quel durante, che dovrebbe poi essere l’unica cosa importante, in qualche modo non l’hai vissuto… ecco, il gioco, banale ma sempre gioco, è fatto. Perché il prima è la vita normale, il dopo è il far i conti con quel che è successo. E il durante? A saperlo! Sembra davvero un gioco, ma di quelli dei quali non conosci le regole, e sei lì a cercar di capire. Ti arrabatti, insomma… prova tu a fare i conti con un vuoto, settimane che sai di aver vissuto ma che non ricordi… E ti capita così di arrabbiarti perché “accidenti, mi è tornato quel maledetto fungo della pelle”. Solo che poi ti dicono “no, non è il fungo, guarda che quelle sono cicatrici. Avevi tubi, cavi e sensori…” Ridi, ma a denti stretti. Tubi, cavi, sensori? E il braccio che fa fatica a compiere anche i più banali gesti, chessò, allacciare un bottone… ma come è? “Ma adesso lo usi anche bene”, dicono… sì, ma “prima” lo usavo meglio! E prima non vivevo avvolta nella nebbia. “Sono coaguli di sangue, bisogna aver pazienza, passerà”… D’accordo, passerà, ma adesso? Pazienza, ma la pazienza ce l’hai se sai cosa stai affrontando, non se ti manca tutto quel “durante” che nasconde la spiegazione. Che poi, si certo, ho letto, fatto domande, scavato… “ti fai del male, lascia stare” dicevano. Ma che lascia stare! Voglio sapere, voglio capire, voglio ricordare… Ricordare… una parte di me continua a dirmi non insistere, meglio così. Il cervello cancella il troppo dolore, è una forma di difesa. Ma quelle settimane tornano. Io c’ero, parlavo, facevo cose. Molte assurdità, vero, nessun controllo su di me, vero. Ma le ho vissute io, e le hanno vissute le persone che mi sono state vicine. E io non ricordo… E’ come se mi avessero strappato un pezzo di pelle, e la ferita non possa rimarginarsi se non ritrovo quella pelle. Sento, annuso e respiro il dolore vissuto da chi mi è stato accanto. Dolore, disperazione, angoscia. Qualcosa di così profondo da aver lasciato una traccia visibile. La vedo, ma non mi appartiene. Dicono che il tempo guarisca tutto. Forse. Ma quel tempo lo devi comunque vivere. “E’ la vita”, dicono i saggi. Vero, e vero anche che in fondo dovrei limitarmi a guardare quel che è adesso. Ci sono, tutta intera, e nessuno ci avrebbe scommesso. Ma mettici il gusto per il melodramma, mettici la voglia di protagonismo, e mettici anche un po’ di presunzione. Il risultato è quel che vivo oggi. Rabbia, e molte, forse troppe domande. Come tanti, come tutti, banale lo so. Ma lasciatemi essere banale, lasciatemi scrivere, raccontare, scavare. Che in fondo è vivere.
IO RACCONTO Un incubo. Uno di quei sogni strani che ti restano appiccicati addosso anche quando ti svegli. E’ il primo pensiero. Che altro, se ti ritrovi in un posto che non conosci, un letto strano e stretto, fili e tubi che ti escono da ogni parte e gente in camice bianco e verde che ti corre attorno? Un incubo, appunto… Ecco, la mia storia comincia da qui. No, non è vero. Comincia mesi prima, solo che io non lo so, non in quel momento. Perché da quell’incubo sono uscita un giorno di quasi inverno, e ci ero entrata, senza accorgermene, che l’autunno era appena iniziato. Frammenti di memoria. Sensazione di pace. Guardala, è la mia famiglia. Un marito, una figlia, un piccolino appena arrivato. Usciamo dall’ospedale per tornare a casa e io sento il cuore che mi esplode dentro. La mia famiglia. Siamo una famiglia. Poi… poi tutto si annebbia. So, me lo racconteranno dopo, che siamo arrivati a casa. Mi occupo del piccolino e della grande, mi sento bene, serena. Solo quel fastidioso mal di testa. Passerà. Altro frammento. Sto piangendo. E’ mattina, due persone in divisa mi aiutano a scendere le scale. Esco. Salgo su un’autoambulanza. Arriva mia figlia. Vedo la sua bocca spalancarsi, so che sta urlando ma non riesco a sentirla, non ricordo… E poi il buio. Quel giorno era il 19 ottobre. Mi sveglio dall’incubo che ormai è metà dicembre… E in mezzo? In mezzo la mia storia. Pezzi di memoria, racconti succhiati da altre memorie, sensazioni e allucinazioni. Storia che è mia ma non mi appartiene. Non so ricostruire. Ma voglio, devo provarci. Per me, per i miei figli. Per chi neanche un istante ha smesso di sperare, pregare e imprecare. Storia che ha un nome preciso, termine medico che racconta tutto, e niente. Aneurisma cerebrale, disseccamento dell’arteria vertebrale destra. Vasospasmo, meningite. Dicono tutto. E nulla dei sogni, della paura, di quel senso infinito di vuoto che ti paralizza e ti trascina in fondo ad una palude di ansia. Ne sono uscita? Non lo so, non ne sono certa. Vero, contro ogni previsione sono qua, e sto bene. Ma quel buco nero è ancora dentro di me. Giorni, settimane perse che non recupererò mai più. Meglio, mi dicono. Siamo sicuri? In quei due mesi, e in quelli seguenti, i miei figli, mio marito, i miei familiari, hanno vissuto, sofferto, sono cambiati. E io dov’ero? Ecco, questa è la mia storia, un tentativo di cucire insieme pezzi che mancano, di urlare “c’ero anch’io”. Serve? Interessa? Non lo so, io devo raccontare. SABATO 18 OTTOBRE 2003, MAGENTA Ci siamo, vado a casa. Guardo sul letto. La valigia, la vestaglia. E un ranocchietto piccolo. Mio figlio, Luca. A quattro giorni di vita è uno scricciolo di poco più di due chili. Pelato, roseo, profumato. Mio figlio. Lo guardo con quel senso di stupore che non mi ha abbandonato neanche per un istante da quando l’hanno tolto dalla mia pancia. Ho pianto, e non so ancora perché. Quando è apparso davanti ai miei occhi, quando ho sentito il piccolo strappo, attutito dall’anestesia di un parto cesareo programmato, quando un’infermiera gentile me lo ha presentato, ho sentito un urto in gola. Come quando ho scoperto di essere incinta. “Ma non sei in ritardo?” mi aveva chiesto Andrea, mio marito. Eravamo appena tornati da un lungo finesettimana in montagna. Io e lui, a riscoprirci dopo un periodo di crisi. La nostra bambina, Asia, era rimasta a casa. E noi eravamo tornati coppia. “Ritardo? Si, forse, controlliamo”. E’ uno dei ricordi più netti, uno dei pochi. Lo stick che nemmeno faccio in tempo a chiudere. Due linee rosse, nitide, quasi rabbiose. E l’ansia che afferra la gola. Oddio, adesso cosa faccio? Un figlio, un figlio è una cosa bellissima. Io lo so bene, come potrei pensare altro quando mi basta guardare Asia per sentire quel grumo di affetto, paura, responsabilità, orgoglio, fierezza che non so definire se non come amore? E allora, perché quella paura? Quell’angoscia che non so spiegare? I nove mesi di gravidanza sono un ricordo strano. Scivolano via lievi, sto bene, benissimo. Ma avevo quella strana ansia, un filo nero strisciante, sempre lì ma mai palese. Facile, ora, dire “intuizione”, troppo comodo, a posteriori. Però io so che c’era. Come c’è stato quel piccolo, incompreso segnale. Un indizio. Cena in un locale da tempo sospirato. Poi tutto svanisce, mio marito, seduto di fronte a me, sembra allontanarsi, si sfuoca. I suoni si ovattano, i colori sbiadiscono. “Sto per svenire” dico. E svengo. Mi sveglio pochi minuti dopo, stesa per terra tra tavoli spinti contro i muri per farmi spazio e gente che mi scruta spaventata. Sento Luca - lo sappiamo già che è un lui – che scalcia nella mia pancia. “Tutto bene, sto bene”. Mi portano in ospedale, Luca continua a ballare la rumba, io mi sento bene, e poi c’è da lavorare, ci hanno chiamati… Mesi dopo mi diranno che quello era stato il primo atto, che era una specie di semaforo lampeggiante “attenzione”. Ma non lo sapevamo. A Magenta, quella mattina, nove mesi dopo, sapevo solo che ero felice. Due bambini, una vita da scoprire. Peccato solo per quel mal di testa. L’ultimo ricordo nitido, in ordine cronologico, è il ritorno in auto, noi quattro. Io guardo la mia famiglia, e quel sottile filo nero che mi aveva accompagnato fino ad allora sembra svanito. Poi la memoria si frammenta. So che ero a casa, che ho giocato con Asia, coccolato e allattato Luca, baciato mio marito. La notte mi sono alzata ad allattare. Non ricordo. Poi è mattina. Vedo Luca nel suo lettino. E’ così piccolo. Bellissimo. Dorme tutto avvolto dalla copertina. Io mi lavo i capelli. Poi due persone in divisa mi aiutano a scendere le scale. Esco, salgo in ambulanza. Che è successo? Non lo so, non ricordo. Mi racconteranno poi che ho urlato, ho chiesto aiuto. Poi il vuoto. E una serie di flash, lampi che non tento nemmeno di mettere in ordine. Un medico, forse una donna, chino su di me. Io chiedo “ma dopo, posso tornare ad allattare?” Non ricordo la risposta, non ricordo il viso. Solo la sua espressione di infinita tristezza. Poi una stanza di lucido acciaio e strani fantasmi che mi girano attorno. Un’infermiera che mi spinge e mi chiede “ti ricordi di me?” La febbre che sale. “Ho freddo, no, non può essere meningite” E ancora una stanza buia, io sono in un angolo, sola. Scoprirò poi che la mia vista se ne è andata, coaguli di sangue mi hanno gettato in una caverna perennemente oscura. Spiegazione razionale, ma l’angoscia vissuta sentendomi abbandonata in un luogo privo di luce, perennemente avvolto nella nebbia, quella non riesco a scordarla. Poi ancora frammenti. Un odore insopportabile. Sono i miei capelli. “Via, tagliateli, rasateli” Il rasoio che gratta la cute. Freddo. Tubi, fili, lacci. Gente attorno a me. “Sono qui, non c’è nessuno?” Sono su una scalinata alta, non riesco a muovermi. Un lampo di luce. I miei figli. Andrea appende una loro foto sulla parete accanto al mio letto. Passo le ore a strizzare gli occhi per guardarli. Diventano il centro del mio mondo. Quando sono sola però. Che nessuno si accorga di quanto fa male. Li guardo, li studio, piango. Dove sono? Cosa è successo? Perché sto qui? Che ho fatto di male? Mi spiegano, raccontano, spiegano ancora. Dimentico tutto, chiedo ancora. E poi di nuovo febbre. Un’altra meningite. Facce sempre più tese. E di nuovo oblio. Sono stesa su un materasso gettato per terra, lurido. Sola. Non è vero, lo so, ma allora quella era la sensazione, e quello ricordo. Reazione ad un antibiotico. Sono una larva. Non mangio, non bevo, non controllo il mio corpo. C’è solo buio attorno a me. Altro flash. Devono alimentarmi forzatamente, Chiara, mia sorella, ha sollevato di peso i medici “così la fate morire” Decidono di inserirmi una cannula nel braccio, catetere centrale. Ricordo il medico, lo studio luminoso, non so come ci sono arrivata e non so cosa mi fanno. Poi ancora buio. Tubi che si intrecciano, dolore, vergogna… mettetemi un pannolone, “cosa sono diventata?” Scoprirò poi che siamo ormai a dicembre, che i medici decidono di tentare il tutto per tutto, un intervento, ultimo di una lunga serie – sette racconta alla fine la cartella clinica – per offrirmi una chance, l’ultima. E io mi sveglio. “Ciao, come state?” Ci sono, ci sono tutta. Dolorante, a pezzi, confusa e incapace di capire la portata di quello che è successo. Ma ci sono. E’ come quando ci si sveglia la mattina dopo una nottata di sonno pesante, popolato di sogni indigesti, e scopri che c’è il sole, è primavera, il mondo è pieno di colori. E’ quello che deve provare un neonato quando l’aria gli esplode per la prima volta nei polmoni e apre gli occhi sul mondo. Non so con esattezza che giorno fosse. Io ricordo che stavo bene, a patto di non alzarmi. Allora mi esplodeva la testa. Ma stavo bene. Vedevo ancora il mondo in bianco e nero, confuso e annebbiato. Ma stavo bene. I sorrisi dei medici, il sollievo mischiato al timore di illudersi ancora sui volti di mio padre, mia madre, mia sorella e mio marito. Amici che vengono a salutarmi. Mi portano un telefono. Asia, come sta Asia? La prima telefonata. Litigo con i tasti, non ci vedo ma devo riuscirci. Non ricordo cosa ci siamo dette, non ricordo la sua voce. Solo la sensazione di un dolore infinito, e di una gioia profonda. “Amore, come stai? Ti aspetto” E lei è venuta. Abbiamo aspettato che mi togliessero tutte le cannule, i tubi, i drenaggi, abbiamo atteso che fossi abbastanza forte per non spaventarla più di quanto già era. Una bimba così piccola, quattro anni e mezzo, che si vede portar via la mamma così, senza un perché…
21 DICEMBRE 2003, REPARTO DI NEURICHIRURGIA, OSPEDALE SAN RAFFAELE
Il compleanno di Andrea. La mia seconda nascita. L’ansia mi stringe la gola. Ce la farò? Sento le voci. Mi alzo, mi affaccio alla porta. C’è un piccolo gnomo vestito di rosso, un cappellino blu calcato sulla testa, il visino contratto. Mi abbasso, allargo le braccia. Stringo, stringo e sento le lacrime che bussano prepotenti. Mia figlia, mia figlia. Cerco le parole, voglio rassicurarla. I capelli cresceranno, i cerotti spariranno. Ma non riesco a emettere fiato. E lei, sempre così chiaccherina, riesce solo a sussurrare “mamma”. Dio Asia, Dio… Andiamo nella saletta, cerco di parlare, di scoprire come sta. Poi mi esplode la testa. No per Dio, no! Non è giusto. Torno a letto stremata. Pazienza, ci vuole pazienza amore mio. Mamma torna presto. Se ne vanno, mi hanno fatto un regalo immenso ma io adesso ho paura. E Luca? Come sta? Mi riconoscerà? Sarò capace di occuparmene? Mi hanno raccontato, con cautela, come se temessero la mia reazione, che il piccolino è con mia sorella, la mia generosa, forte, dolcissima sorellina. L’ha preso in affido “non avevamo altre soluzioni”. Altre soluzioni? Ma è la cosa più bella, più generosa, più altruistica che poteste fare. Una dimostrazione di amore che pochi possono sperare di avere. Ma lui, lui saprà chi è la sua mamma? Passano i giorni. Cerco di stare tranquilla, nascondo la paura che mi soffoca quando penso che si avvicina il momento di tornare a casa. Voglio tornare, ma sono terrorizzata. “Domani ti dimettiamo”. Me lo dicono il 23 dicembre, compleanno di mio cognato Alessandro. Quante date importanti. Poi marcia indietro. “No, gli esami non vanno bene, devi restare qua ancora”. Altre flebo, ho le braccia devastate, una mano che non riesco ad usare bene, la testa che gira a vuoto, gli occhi affogati nel sangue che nasconde il mondo esterno. Voglio andare a casa. Notte di Natale, mezzanotte, arrivano gli infermieri. Spumante e panettone per tutti. Io piango. La sera della Vigilia apriamo i pacchi. Che avranno fatto Asia e Luca? Poi arriva la mattina. E Babbo Natale mi porta il dono più bello. “Vai a casa, gli esami sono a posto”. Arrivano mio marito e mio padre. Si sono ricordati, mi portano un cappellino. La testa pelata in pieno dicembre non è un bel viatico! “Prendiamo la sedia a rotelle?” mi chiedono, dopo che il medico ha firmato la lettera di dimissioni. “No, se arriva il mal di testa, ce ne occuperemo poi”. Esco, salgo in auto. Tutto bene, il solito dolore ancora non si è fatto vivo. “Strano però, di solito mi bastavano pochi minuti…” Non lo so ancora, ma quel dolore non tornerà più. Sono davanti a casa. Gli occhi ancora appannati vedono un cartello, grande, colorato. “Bentornata mamma” Non devo piangere, non posso. Entro, sono tutti li ad aspettarmi. Asia… Luca… lo prendo in braccio e lui mi sorride. Mi sorride! Sento un grumo che si scioglie, una scossa che mi succhia ogni energia e disperde ogni paura. Sono a casa. E’ strano. Dei due mesi e oltre in ospedale ho pochi e frammentati ricordi, e questo in fondo è logico. Il sangue, fonte di vita, è un veleno potente se non sta al suo posto, e il mio cervello ne era annegato. Aggiungiamo poi tutti i medicinali, antibiotici, antidolorifici, anticoagulanti, che mi hanno somministrato per settimane e settimane, e non è difficile capire come in quel letto ci fosse una Barbara che non ero io. Una parte di me, quella viva, vitale, presente, si era forse ritirata altrove. Una fuga, forse un po’ vigliacca ma che era probabilmente l’unica strada da percorrere. Che quella nebbia mnemonica, quella confusione frammentata di ricordi riguardi anche tutto il periodo seguente, ecco, questo faccio più fatica ad accettarlo. Sono tornata a casa il giorno di Natale, i medici del reparto di Neurochirurgia hanno compiuto l’ennesimo miracolo e hanno offerto ai miei figli, ai miei familiari, un dono che non si dimentica. Quel giorno ce l’ho stampato in mente. L’arrivo a casa, gli occhi lucidi di mia mamma e mia sorella, io che mi tolgo il cappotto e lo getto sulla poltrona. E sotto c’è mio figlio… non vedo, maledizione, non vedo e non riesco nemmeno a vedere il mio bambino. Mia sorella e mia mamma ridono, riso nervoso. Io mi sento quasi morire… A riportarmi in vita, a donarmi una speranza vera, a riportare Barbara da me ci pensa lui: lo prendo in braccio, mi studia, mi sorride. Quel piccolo volto che si illumina. Un altro ricordo prezioso che mi tengo stretto. Poi il pranzo, forse il più bel pranzo di Natale della mia vita. Non ricordo cosa c’era in tavola, ricordo solo sapori meravigliosi. E la strana sensazione che stesse accadendo qualcosa. Il mal di testa lancinante che mi aveva accompagnato dall’ultima operazione, quando mi hanno inserito una valvola drenante necessaria per scaricare il liquor nel peritoneo – tutto quello che è successo ha mandato in tilt il sistema autonomo, senza quella valvola vivrei con un idrocefalo costante - ancora non si fa vivo. Strano, e bellissimo. “Stai bene? Vuoi andare un po’ a letto?” mi chiedono. “No, sto ancora un po’ qua”. Mi spaventa l’idea di affrontare le scale. Mi raccontano che avevano pensato di attrezzare un letto a pian terreno. “No, voglio andare in camera mia”. Ci provo. E arrivo di sopra con la sensazione di aver scalato una montagna con leggerezza, come se fosse una passeggiata… Mi torna in mente quello che mi aveva detto il fisioterapista, chiamato dai medici di reparto pochi giorni dopo l’intervento. Mi aveva visitato, palpeggiato, rigirata in posizioni assurde. Mi ha fatto alzare e camminare. “Non servo, io qua non servo a nulla. Prenditi tempo, con calma, senza fretta, ma non c’è nulla che io possa insegnarti”. Se ne era andato sorridendo, e mi aveva lasciato in una specie di stupore incredulo. Ma come, non ci vedo, il braccio sinistro sembra un’appendice inutile, le gambe tremano e compiono passettini tremuli che neanche un bimbo agli inizi della sua avventura. Che faccio io? Da sola? Ma salire le scale, quella prima volta… avevo pensato “al massimo mi faccio portare in braccio”, credevo che avrei lottato con ogni gradino, figuriamoci arrampicarmi su due rampe. E invece, invece ce l’ho fatta. Quasi da sola, con mio padre dietro di me pronto a sostenermi e mio marito davanti a controllare ogni passo… Quel giorno credo di aver capito cosa deve provare un atleta che sale sul gradino più alto del podio. Si sta facendo buio, è ora di cena. Si, questa sera resto a letto. Mangio, poi arriva Asia. Me la porto nel letto. Ci abbracciamo. La mia piccola, la mia piccolina. Luca è con mia sorella, io non sono ancora in grado di occuparmene, ma lei, lei è con me. Scoppia a piangere disperata. “Cosa c’è amore mio, cosa succede? Sono qui, sono qui con te”. La cullo, non ricordo che parole pronuncio. E lei all’improvviso decide di parlare. “E’ colpa mia, mamma, è tutta colpa mia”. Tra i singhiozzi, il visino tutto contratto, mi spiega che quello che è successo è tutta colpa sua: lei voleva un fratellino, lei me lo ha chiesto e io l’ho accontentata. Lo ho fatto nascere, gliel’ho donato – usa proprio queste parole – e poi io sono stata male. “Vedi mamma, che è colpa mia”. Sento freddo. Come faccio a spiegare ad una bimba di nemmeno 5 anni che no, non c’entrano gravidanza e parto? Che sarebbe successo comunque, magari in un altro momento, ma sarebbe successo? Come faccio, se anche tanti adulti hanno l’identica convinzione? A fatica, trovo le parole, non so se sono quelle giuste, ma lei sembra calmarsi. Del senso di colpa non parlerà più. In altre occasioni, più avanti nel tempo, mi farà domande, pretenderà spiegazioni quasi scientifiche, vorrà certezza che non capiterà più. Ma la colpa, credo abbia capito, non se la addosserà ancora. Quella sera resterà per sempre impressa nella mia memoria come uno degli eventi centrali della mia vita. La consapevolezza di aver ferito mia figlia, di averla ferita profondamente… non credo potrò mai dimenticarla. Poi i ricordi si frammentano. Giorni che si susseguono. Amici e parenti che vengono a trovarmi, io che chiacchero con tutti, io che mi sento viva. Mia sorella che mi porta il piccolo. Mi controllo, so che non è ancora tempo, non devo far capire quanto male fa vederlo andare via dopo averlo cullato per poche ore… indosso una maschera di indifferenza, e ingoio dolore. Per fortuna c’è Asia. E ci sono i miei familiari che mi riempiono di attenzioni e premure. Arriva Capodanno. Veglione in casa. “Non so quanto riuscirò a stare con voi…” ma arriva mezzanotte e sono ancora con loro, festeggiamo il 2004. Altri giorni. Piano piano la vista comincia a snebbiarsi tanto da consentirmi di cominciare a leggere. Con fatica, neanche fossi in prima elementare, ma leggo… e comincio a cercare informazioni. Mi attacco ad Internet, spulcio ogni pagina che parli di aneurisma cerebrale, confronto dati e statistiche. Io non ci sono. Il mio caso non esiste. Non è previsto che da un evento come quello che ho vissuto io si possa uscire senza danni, senza nemmeno un giorno di fisioterapia… Mi sento strana. Non è che hanno sbagliato? Non è che avrei dovuto seguire qualche cura? Come è possibile? Braccio e mano faticano ancora a muoversi, le forze tardano a tornare, la vista è ancora tanto appannata da impedirmi perfino di scendere le scale da sola. E ho attacchi di prurito che mi distruggono, un prurito intenso, doloroso, che arriva all’improvviso e se ne va solo se mi butto in vasca da bagno, piangendo e strepitando. Non esco di casa, per paura di quegli attacchi. Che faccio se mi capita mentre sono fuori? Mi spoglio in mezzo alla strada? Mi getto in una pozzanghera? I medici non sanno che dire. Mi fanno fare una lunga serie di analisi, test sulle allergie… e nel frattempo una bravissima allergologa, forse l’unica che ci ha capito qualcosa, suggerisce una dieta. “Interrompiamo il ciclo di produzione degli enzimi che possono dar vita a manifestazioni allergiche”. Per un mese elimino dalla mia tavola pane, parmigiano, pomodori, crostacei e un’infinita serie di alimenti… una sofferenza, ma quando arrivano i risultati dei test che dimostrano come non esistano allergie, il prurito è ormai scomparso. Interrompo la dieta un po’ timorosa, ma quella sofferenza, come il mal di testa, non tornerà più. Un’altra vittoria. Che si somma ad un altro piccolo, piccolissimo evento che ricordo però con una gioia immensa. Piccolo balzo indietro nel tempo, credo: anche in questo caso non ho certezza sulla cronologia. Un pomeriggio resto a casa da sola. Suona il campanello. E’ mia cognata Elena che viene a trovarmi. Ho voglia di vederla, che faccio? Ci penso meno di un minuto, imbocco le scale e scendo, due piani attaccata al muro, ma scendo. E apro la porta con un sorriso che nemmeno sapevo di avere. Da quel giorno, vista o non vista, comincio a muovermi con sempre maggior sicurezza. E a credere che forse i medici non si siano sbagliati. Comincio a pensare con sempre maggiore insistenza a Luca. Andrea mi rassicura. Lui c’è, nei primi tempi se ne occuperà lui, se io me la sento… se me la sento? Lo so che mia madre, e forse anche altre persone, erano convinte che non volessi, che avessi paura… in parte avevano ragione. Paura di non essere all’altezza, di far del male a quel piccoletto… ma quando arriva, quando lo vedo dormire per la prima volta nel suo lettino… ecco, quella notte mi sono svegliata mille volte, lo guardavo, guardavo Andrea dargli il latte. Dentro di me sentivo un dolore sordo, davanti a quel biberon… Asia l’ho allattata 18 mesi, Luca l’ho attaccato solo 5 giorni… come mi mancano, quei momenti. Nessuno mi restituirà mai quello che ho perso. Nessuno mi darà indietro le prime settimane di mio figlio, la sensazione di dargli la vita con il latte, l’emozione di guardarsi negli occhi quando è attaccato al tuo seno… Luca ha ormai quasi 5 mesi, è un bambino meraviglioso. Ci preoccupiamo che il trovarsi improvvisamente in un’altra casa possa creargli problemi ma lui, ancora una volta, ci stupisce. Arriva, si guarda attorno, e accetta con naturalezza la nuova sistemazione, quella che per lui è una nuova famiglia. Quando Chiara e Emiliano, suo marito, e Maia e Myra, le loro bimbe, vengono da noi Luca è strafelice, non li perde di vista, si accoccola contro di loro. Ma poi cerca me. E io vedo negli occhi di quei due zii speciali gioia e sofferenza, ma non riesco a dir loro null’altro se non un muto grazie. Grazie per l’amore che gli e mi hanno dato. Grazie per i sacrifici affrontati. E grazie per essersi tirati indietro, messi da parte quando io ero pronta. Una parte di me, quella carogna, quella che da sempre sembra godere nel darmi sofferenza, mi accusa di egoismo. Li ho usati, sfruttati, spremuti. E adesso godo i frutti. E’ assurdo, lo so. Ma sono pensieri che mi accompagneranno a lungo, forse ancora oggi. Intanto però i giorni continuano a passare. Le forze piano piano tornano. Scarse, mi affatico con un nulla, ma comincio a riprendere in mano la mia vita. Esco. Non so che giorno fosse. Incontro un vecchio conoscente. “Ehi, che hai fatto? Che look aggressivo. Come mai?” mi chiede guardando i miei capelli che stanno appena cominciando a crescere. Mi scappa da ridere. Non sa nulla, non si è accorto di nulla. Quando Andrea gli spiega cosa è successo sbianca improvvisamente. Ma per me è un’iniezione, l’ennesima, di fiducia. Non sono ancora a posto, tanta strada c’è ancora da percorrere, ma se anche chi mi conosce bene non si rende conto dei miei deficit, allora vuol dire che sono davvero poca cosa. Altra sfida, mi chiama il mio caporedattore. “Come stai?” “Bene Mario, ho voglia di scrivere”. Siamo a febbraio, sono a casa da meno di due mesi. La vista è ancora latitante. Il prurito non mi da tregua, mano e braccio ogni tanto si bloccano. Ma ci devo provare. “Sei sicura? Te la senti?” “Voglio provarci”. Mi siedo davanti al computer. La pagina bianca è una scommessa. Devo buttar giù venti righe venti. Una sciocchezza, prima. Sudo, tremo, batto sui tasti e cancello. Mi gratto furiosamente. In testa ho tutto il pezzo, sullo schermo appare tutt’altro. La stessa cosa che mi succede quando parlo: voglio dire una cosa, ma la parola che ho chiara in mente non esce, ne emerge un’altra, una che non c’entra nulla. Me l’avevano detto, che sarebbe stato così. Ma un conto è sentirselo dire, altro è vivere questo strano sdoppiamento. Io che parlo, scrivo. E io che mi guardo e penso “ma chi è quella? Cosa sta facendo? Cosa dice?”. Alla fine le venti righe arrivano. Sono passate oltre quattro ore. Me lo ricordo come fosse ieri. Salvo e spedisco. Mario mi chiama. E’ commosso. “Brava, ti aspettavamo, sei tornata”. Io piango, piango e rido. Grazie Mario, ma mi sa che ho bisogno di altro tempo. Tempo che dedico ai miei bimbi, a mio marito. E a cercare di capire cosa mi è successo. Scopro, non ricordo quando, che mia zia, Maria, sorella di mia mamma, ha tenuto un diario per tutto il tempo del mio ricovero. “Zia, me lo fai leggere?” E’ perplessa, teme possa farmi male. La convinco che ne ho bisogno. Devo trovare il modo di colmare quel buco immenso che mi porto dentro. E’ come quando hai sete e fame, un immenso vuoto nello stomaco che puoi solo riempire il più in fretta possibile. Non sono ricordi miei, ma in un certo senso mi appartengono, è la mia vita, quella che mi è stata rubata. Si convince, e mi manda il lungo, tenero, commovente racconto.
MARIA RACCONTA
Di tutta la settimana il giorno che mi piace in assoluto è la domenica mattina. E’ di relax, anche se magari lavoro, ma è tutto fatto con tempi lunghi, comodi, mi sembra di avere ancora un sacco di tempo per me. Mi alzo con comodo, faccio colazione, chiacchiero con Jacopo, che in genere è già alzato e guarda i cartoni, poi vado in camera e stiro. Ma stiro sentendo Radio Popolare che alla domenica mattina fa dei programmi che mi piacciono un sacco. E magari mentre stiro e sento la radio sento anche i verbi a Jacopo. Ma stranamente mi sento in relax. E così quella domenica mattina. Paolo non c’era, aveva dormito in cameretta per non svegliarmi perché si era alzato prestissimo per andare ad una castagnata organizzata dal suo cral. Nel pomeriggio dovevo venire da te a vedere finalmente il bambino, gli avevo comprato un giubbottino da indiano e non vedevo l’ora di fartelo vedere. Mi sento in colpa per non essere venuta a trovarti in ospedale ma, insomma, è andata così. Squilla il telefono, è Carlo mi dice di non stare a venire nel pomeriggio perché ti avevano appena portato in ospedale e pensa che ti ricovereranno sicuramente qualche giorno perché hai la pressione alta e molto mal di testa. Cavolo non ci voleva, ma penso che sia una sciocchezza e che ti rimetteranno in sesto rapidamente. Mi rimetto a stirare ed a un certo momento un flash, uno di quei dannatissimi pensieri che ti balenano dentro e non riesci a mandarli via. Vedo mia sorella disperata con il tuo bambino e Asia da crescere. Mi dò della cogliona, mi insulto da sola, non capisco come fanno a venire questi pensieri pazzeschi, senza senso. Cos’è il gusto del dramma? Mi viene un crampo allo stomaco perché ogni tanto li ho questi dannati pensieri. Li ho avuti con la nonna e con Gaia. Continuo a insultarmi e a stirare con rabbia. Matteo e Jacopo sono fuori col cane, è una bella giornata questo dannato 19 ottobre. Scendo e inizio a pensare a cosa cucinare. E’ passata più di un’ora da quando ho sentito Carlo, provo a sentire se sa qualcosa di nuovo. Mi ha appena risposto quando sento che entra in casa Chiara con il bambino in braccio, prende lei la cornetta e mi parla, le chiedo perché ha lei Luca e lei mi dice che tu hai perso conoscenza e che temono che tu abbia un’emorragia cerebrale. Sento le orecchie che mi ronzano e mi sembra di non riuscire a connettere, le dico che arrivo subito, che Carlo mi aspetti. Spengo tutti i fuochi e corro fuori come sono. Jacopo e Matteo stanno giocando nell’area dei cani, ridono, si prendono a calci, il cane salta loro addosso. Io non riesco neanche a parlare, mi sembra un incubo. Matteo mi vede stravolta, con frasi smozzicate dico quello che è successo, gli dico di dar da mangiare a Jacopo che io devo correre da te ma lui si arrabbia da pazzi mi dice di chiamare Vittoria e di lasciarle Jacopo che lui viene con me. Chiamo la mia amica, mi dice di mandarglielo subito e di non preoccuparmi. Mentre sto per uscire squilla il telefono, è Ugo, è tutto allegro e con quella sua voce calma e simpatica mi chiede se ci vediamo su sabato prossimo. Gli dico che è un momento bruttissimo che devo correre da te in ospedale…”scusami ci sentiamo”. Mentre chiudo la porta squilla il cellulare, è Visconti, ho buttato il telefonino in borsa senza bloccare i tasti e ha continuato a chiamarlo, ci siamo sentiti la sera prima per una cena e lui pensa che io voglia disdirla. Sono sconvolta, con poche frasi gli dico cosa è successo e salgo in macchina. Non parliamo fino a Segrate. Salgo un attimo in casa, Chiara è pallida, Carlo non riesce a infilarsi le scarpe, butto un occhio dentro la culla, com’è piccolo quel fagottino... mi viene un brivido. Corriamo fuori, il Pronto Soccorso è pieno di ragazzi col collarino, i tuoi sono tutti li. Laura è seduta sul bordo di un’aiuola. Ci abbracciamo strette, è disperata. Andrea è al telefono, passeggia come un pazzo, parla col tuo ginecologo, ci stringiamo forte. Come è possibile? Come è possibile una cosa simile? Ci sono tuo suocero e Alessandro. Adesso ti stanno facendo un esame ma la situazione è peggiorata sicchè ti hanno messo un catetere per drenare il sangue che ti comprime troppo il cervello. Poi ti faranno una vaso-risonanza per localizzare dove sia l’emorragia per poter intervenire. Aspettiamo, i minuti sembrano ore ma non c’è altro da fare. Arriva un’infermiera che consegna a Laura i tuoi oggettini d’oro e lei se ne sta lì con quelle cose in mano e le guarda come se quello fosse tutto ciò che rimane di te. Andrea è disperato, parlano di aneurisma o qualcosa del genere, io dico che una mia collega l’ha avuto, che è tornata a lavorare, anche a un altro mio collega è successo, sono tutti e due a lavorare, stanno bene, non dobbiamo disperare, tutti si aggrappano a queste speranze ma io non dico come è la mia collega. Mi viene da piangere all’idea di vederti come lei pendere da una parte e trascinare una gamba, ma la sola idea di perderti completamente è talmente insopportabile che qualunque cosa va bene purchè tu viva. Laura sembra leggermi dentro perché dice “in qualunque modo, anche su una sedia a rotelle, non mi importa…non mi importa, basta che ci sia”. Arrivano due amici, uno di loro lavora in ospedale e va a parlare con i medici, ma gli dicono esattamente quello che già sappiamo. Ci fanno vedere l’ecografia, l’emorragia è imponente e la situazione peggiora. Chiamo Chiara, non ce la fa più a stare a casa ad aspettare, vado a darle il cambio. Luca dorme inconsapevole dell’angoscia intorno a lui. Si sveglia ma non piange, è come un gattino, si slappa tutto il biberon, lo cambio. Dio com’è piccolo. Non ci ricordiamo mai come sono appena nati. Ce ne dimentichiamo presto ma sono bellissimi nella loro incompletezza. La pelle grinzosa, il visino così piccolo, le gambine molli, ma penso chissà che uomo diventerai? Come sarai piccolino quando non ci ricorderemo più come sei adesso. Me lo tengo in braccio, viso contro viso… avrai bisogno di coccole, chissà quando lo potrà fare la tua mamma. Non rutta e non rigurgita, si riaddormenta e sorride soddisfatto. Me lo tengo addosso. Non chiama nessuno. Perché non chiama nessuno? A casa è insopportabile il silenzio. Chiamo Chiara. Non piange ma è disperata. Mi dice che il quadro è bruttissimo, che non si può operare, che domani forse tenteranno un intervento da una vena ma nessuno dà molte speranze, non sa come fare a dirlo a tua mamma. Mi sento le orecchie fischiare, stringo Luca e piango tutte le mie lacrime. Vorrei parlare con Paolo ma è irraggiungibile. Dannazione a lui e alla sua fobia dei cellulari. Chiamo Carla e le butto addosso un po’ della mia disperazione. Sono sul divano col bambino avvolto in una copertina, guancia a guancia e si apre la porta e entrano tutti. E’ un momento terribile, forse il più terribile, perché non abbiamo speranza. Sento freddo ma so che lo provano anche gli altri, è un freddo che è dentro e che abbiamo già provato. Dò Luca a Graziella ma lei me lo ridà subito. E’ così fragile che hanno paura a maneggiarlo. Lo portano via, i medici hanno suggerito di ricoverarlo nella nursery, non siamo in grado di accudirlo in questo momento, forse è vero, ma mi si strappa il cuore a vederlo andare via. Andrea dice che è per pochi giorni fino a che non sapremo cosa succederà. Io rimango a mangiare con i tuoi. Mangiamo le lasagne che erano destinate a te. Mai lasagne sono parse più acide e cattive. Me ne vado, devo andare a prendere Jacopo, è tardi. Piango per tutto il tragitto, Matteo invece è ottimista, non può pensare che ti succeda qualcosa di brutto, ma io no…sento che tutto ricomincia. Sto ritornando a casa con Jacopo quando arriva Paolo, scende dalla macchina allegrissimo, beato lui che ha passato una magnifica giornata. Mi saluta ridendo ma come vede la mia faccia capisce che è successo qualcosa, scoppio a piangere e gli racconto tutto. Piange anche lui, in un attimo gli si affloscia tutta la sua bella giornata. Piangiamo, testa contro testa, le nostre lacrime si confondono un po’, poi rientriamo in casa. Vado a letto, mi sento stremata, prego, prego tutti i santi, Padre Pio compreso, prometto che se ti salvi vado a Monterotondo. Prego la nonna e Gaia perché ci aiutino e così pregando e piangendo mi addormento. La mattina dopo piove, lasciamo Jacopo a scuola e veniamo in ospedale. Dopo poco arriva anche Matteo. Sono tutti lì, nella saletta della rianimazione. Andrea ha firmato l’autorizzazione all’intervento. Mi sussurra che se durante l’intervento ricominci a sanguinare puoi morire, puoi morire in 5 minuti…5 fottutissimi minuti…. Mi strazia il cuore guardare tua madre, è lì con gli occhi sperduti, è come avvizzita in un giorno…Dio cosa farei per non farle provare questo dolore, le prendo le mani e le dico con voce ferma e sicura che tutto andrà bene. Ecco, ti portano giù, ti vedo da lontano in fondo al corridoio, mille fili ti penzolano dappertutto, macchinari, flebi… che tristezza. Ci dicono di non precipitarci tutti giù perché tanto l’intervento durerà almeno tre ore e non è il caso stare lì a fissare una porta chiusa, così ci dividiamo, anzi ci perdiamo. Chi va giù, chi al bar, io, Paolo, tua madre e tuo padre rimaniamo nel piano della rianimazione davanti agli ascensori. Alla fine in preda all’agitazione più nera decidiamo di scendere anche noi, tanto stare lì o davanti alla porta chiusa è uguale. Paolo fa l’esperto degli ambienti ospedalieri e così in quei dedali ci perdiamo un paio di volte. Io e tua madre abbiamo anche riso, guarda un po’, perché Paolo non ci faceva prendere l’ascensore perché leggeva sempre la prima parte della frase “Non usare l’ascensore” e tralasciava la seconda “in caso di incendio” e così siamo andati su e giù come pazzi per scale e labirinti. E siamo lì davanti a quella porta verde, è lì che Andrea prende da parte tua madre e la sua e con mille attenzioni dice loro che hanno deciso che Chiara prenderà Luca in affido temporaneo così potrà usufruire della maternità. Trovo la cosa molto bella, bella e commovente e non capisco il motivo di tanta preoccupazione nel dire questo. E’ l’unica soluzione, in alternativa dovremmo occuparcene tutti, io avevo pensato alla notte e ai week-end lunghi, ma lui ha bisogno di una figura fissa. Ma adesso non ci pensiamo, ne parleremo dopo. All’improvviso tutti se ne vanno a fumare e restiamo lì davanti alla porta io, Paolo e tuo suocero ed è allora che la porta si apre ed entra un dottore giovane, ci chiede se siamo tuoi parenti. Ci sorride e io mi sento tutta molle dentro…è andata bene, è finita prima del previsto, ci specifica più volte che è andata bene la parte che riguardava lui e che adesso c’è tutto il resto. Ti hanno chiuso una vena con una specie di collante, è chiusa all’80%, nel corso dei prossimi mesi si chiuderà del tutto. L’intervento era rischiosissimo ma l’hai superato. Mi viene in mente il timbro di Berlusconi “FATTO”. E’ il primo gradino da superare, noi non lo sappiamo ancora, ma di gradini ne avremo talmente tanti che alla fine ne usciremo tutti esausti. Ti portano fuori, sei pallidissima, hai fili dovunque, ancora più di prima, altri macchinari. Ti portano a fare una TAC per vedere se è tutto a posto. Noi ti seguiamo, è sparito anche Giuliano. Ci sediamo e aspettiamo, non si vede nessuno, non sappiamo neanche dove andare a cercarli e poi abbiamo paura che tu esca. Passa del tempo, alla fine ti riportano fuori, quando passi tutti ti guardano, si girano, commentano. Si vede lontano un miglio che sei in un brutto guaio e vedere una ragazza giovane messa così fa male al cuore anche agli estranei. Devono farti salire sull’ascensore per riportarti in terapia intensiva allora noi prendiamo l’altro ma non so per quale ragione, o forse è sempre Paolo che fa casino, ritorniamo dove sei tu e così aiutiamo gli infermieri a tenere aperte le porte poi riprendiamo l’altro ma stranamente riscendiamo insieme e allora ti precediamo aprendoti via via tutte le porte. Provo una strana ebbrezza, sono felice, Paolo mi stringe la mano, ma quando mi telefona Francesca da Guzzano, non riesco a parlare, mi si spezza continuamente la voce e ho saputo poi che quella telefonata l’aveva colpita al cuore. Siamo tutti lì, abbiamo tirato un bel sospiro di sollievo ma la gravità resta e sappiamo che sarà dura. Come sarai quando ti sveglierai? Ti sveglierai? Potrai più fare quello che facevi prima? Chi se ne frega, basta che tu ci sia. Arriva un medico giovane, col pizzetto biondo, è quello che alla macchinetta del caffè mentre spiegavo la situazione alle mie colleghe mi suggeriva le cose. Ci spiega cosa succederà: apriranno delle finestre nel coma farmacologico per vedere come reagisci, dice che è preferibile tenerti sedata per non fare lavorare il cervello, che non sanno i danni ma che questi per il momento non interessano gran che, adesso è la vita da proteggere. Ha una voce gentile, parla lentamente, sembra quasi un prete ma è molto chiaro. Il rischio arriverà tra 7/10 giorni e si chiama VASOSPASMO, cazzo questo cazzo di termine ce lo ricorderemo in eterno. Chi lo sa cos’è questo cazzo di vasospasmo, chi lo conosceva prima, chi ne aveva mai sentito parlare prima? Lo spiega subito: è il sangue che è nel cervello che provoca una specie di avvelenamento, di tossine o insomma qualcosa del genere e questo a sua volta provoca una contrazione delle vene. Non si sa dove può colpire, né quando, né come. Ma dove colpisce fa danno, che danno non si può sapere fino a che non arriva. E quando io ho la brillante idea di chiedergli la percentuale di probabilità di averlo lui se ne esce con “9 donne su 10”. Giovani, fumatrici sono quelle a maggior rischio. Bingo. E’ il tuo ritratto sputato, non c’è verso arriverà…basta che sia lieve. Basta che sia lieve. I tuoi vanno a casa, rimaniamo io Paolo e Andrea. Andrea è sempre al telefono, spiega mille volte cos’è successo, arrivano dei tuoi colleghi così lo spediamo al bar a mangiare qualcosa. E’ stralunato, gli è semplicemente cascato in testa un masso, e come un pugile suonato risponde a tutti, riracconta a tutti la stessa cosa, è il suo modo di scaricarsi, ma quando esce Paolo mi guarda e mi sussurra:”Cazzo quanto parla ‘sto cazzo di Andrea, se è così anche a casa va a finire che glielo ha fatto venire lui l’aneurisma.. Io ho la testa che mi scoppia”. E’ il modo come lo dice? è lo sguardo? è la tensione? Ma mi viene da ridere, nella tragedia mi viene da ridere, gli tiro un calcio secco e gli dò dello stronzo ma per un attimo mi viene da ridere. Quando i tuoi ritornano noi andiamo a casa, Jacopo sta per uscire da scuola. Tutti mi chiedono tue notizie e a tutti sembra che sia finita. Non a noi, abbiamo capito troppo bene il discorso del medico. Ti sei svegliata e hai parlato, sei confusa, ma ti muovi, non sembra che ci siano grossi danni ma LUI continua a dirci PER ADESSO. E così comincia a pulsarci nel cervello questa nuova merdosa parola: vasospasmo. Nonno è morto per una ischemia cerebrale, io questa parola non riesco mai a ricordarmela, la rifiuto, quando cerco di ricordarmela devo fare uno sforzo e poi a volte neanche quello serve. Passano i giorni, io vengo in ospedale ma per diversi giorni non riesco a vederti. Non devi stancarti, tu dai il meglio di te ad Andrea, poi quando entrano gli altri sei sfiancata, sonnecchi e così Andrea si lancia in comiche giustificazioni, gli dispiace che tu con gli altri dorma, vorrebbe mandarci dentro prima noi e noi a sbuffare e a dargli dello scemo. Ma come, non capisce che noi siamo contenti, ci basta sapere che sei cosciente e che ti ricordi dei tuoi bambini, che ti muovi. A noi basta questo, possiamo anche non vederti importante è che tu veda Andrea, perché è lui che tu vuoi. E mi sembra anche giusto cazzo. Se penso che quella domenica prima di perdere conoscenza non ricordavi più di avere partorito. Andrea era corso fuori come un pazzo piangendo e disperandosi. Per entrare da te occorre indossare il camice, il cappellino e i copriscarpe, poi si entra in un locale diviso da pareti aperte, sei piena di fili, hai la testa fasciata, i capelli tirati da una parte. La prima cosa che fai è di chiedermi come sto. Come sto? Come sto io? Cazzo come stai tu! Ma sono contenta, mi si apre un lumicino dentro, non saremo sempre così sfigati no?! Vado fuori subito, ma ti ho visto, mi hai parlato, mi sento meglio. Vado su da Luca. Andrea lo porta fuori e io lo prendo in braccio. Lo accarezzo, gli parlo.. chissà cosa prova. All’improvviso sorride, lo stringo forte, piccolino sfortunato, vorrei portarlo via ma il tempo passa veloce e lo riportano dentro in mezzo agli altri bambini coccolati e sereni. Ti hanno portato in reparto. Sono preoccupata, ti seguiranno bene come in terapia intensiva? Non è un po’ troppo presto? Non verrai disturbata dal via vai dei parenti? Comincio a conoscere ogni crepa dei gradini del San Raffaele. Entro piano nella stanza. Chiara ti sta facendo un massaggio ai piedi, tua mamma è vicino a te.. Mi saluti subito e mi chiedi come sto. Cazzo io bene! Matteo rimane in fondo al letto ha paura di disturbarti ma tu chiedi “Ma Matteo cosa fa lì impalato?” Sembra non ti sfugga niente. Ti lamenti molto, hai male dappertutto, al collo, alla schiena, alla testa. Ti giri continuamente e ogni volta rimani intrappolata nei fili. Bisogna chiamare continuamente le infermiere. Hai un catetere che fa defluire il sangue che hai nel cervello in un flaconcino che ogni tanto viene svuotato. E’ di un colore rosso bruno, quasi nero, questo liquido dovrà diventare trasparente. Rimango sola con te. Per darti un po’ di sollievo comincio a massaggiarti. Comincio dai piedi, hai la pelle secca disidratata. Quando arrivo alle spalle ho una paura matta di farti male, di incasinarmi con i fili, ma continuo fino a che non sento più quasi le mani. Parli di quello che ti è successo, ne parli come se sapessi esattamente cosa è stato. Mi hanno detto di dirti che hai avuto una fessurazione di una vena ma tu mi fai i trabocchetti, arrivi a dirmi che te l’ho detto io che avevi avuto un’aneurisma, quando ribadisco fessurazione, tu con uno sguardo di compatimento mi dici: ”e che cosa credi che sia?...è la stessa cosa.” Ti lamenti molto, sei agitata ma lucida, me ne vado quando arriva Andrea. Quando entra ti copre di nomignoli affettuosi e ricomincia a massaggiarti. Scherziamo un po’ sulla qualità dei miei massaggi e sul fatto che tu preferisci quelli di Andrea, ma quando io e lui ci guardiamo non sorridiamo affatto. Vado da Luca con Alessandro. Entriamo tutti bardati col camice, ha appena mangiato e mi dicono che è meglio lasciarlo nella sdraietta. Dorme, lo accarezzo, gli sussurro paroline dolci e lui fa una cosa pazzesca, come un gattino và con la testa verso la mia mano e sorride. Alessandro dice che se non lo avesse visto non ci avrebbe creduto. Dice che secondo lui mi conosce. Ce ne andiamo con un groppo in gola. Tutte le volte che usciamo è buio. Non l’ho detto a nessuno ma tornare a casa dall’Idroscalo col buio mi mette paura. Sarà che non ci vedo benissimo, saranno i pensieri che mi turbinano in testa ma sono più le volte che non vedo le curve che quelle che vedo. Ci diamo il cambio, io vengo da te dalle tre del pomeriggio in avanti. Sei sempre agitata, ti muovi continuamente, la tua vicina di letto è una donna di mezza età, mezza età…bisogna stare attenti con le parole, di mezz’età lo sono anch’io…diciamo un bel po’ più di mezz’età. Ha una voce stridula, odiosa e parla continuamente. Proprio i primissimi giorni le squilla il telefonino e tu, che a ogni rumore sussulti perché ti rimbomba in testa, dolorante, agitata ma fortissima, alzi la voce e dici: ”Ma questi cazzi di telefonini non sono vietati qua dentro?” Molto, molto bene il caratterino stronzo ti è rimasto. Buon segno. Il bello è che lei risponde con quella voce dall’accento bergamasco stridula, lamentosa e dice che vorrebbe parlà ma che po’ minga che ala so vicina dà fastidi e me toca de metè giò. E tu sempre a voce alta: ”Guarda quando parla è ancora peggio della suoneria.” Queste reazioni mi mettono allegria, promettono di buono. Un pomeriggio tu ti sei finalmente assopita dopo esserti lamentata tutto il tempo e lei fa il diavolo a quattro per farsi mettere sulla sedia a rotelle. Io ti sto vicino in silenzio e ti accarezzo la mano, tutti i rumori ti si amplificano nel cervello, ma adesso che finalmente dormi lei ha voglia di parlare. Cazzo vuole sapere cos’hai e cosa non hai. Faccio finta di niente, ma lei tosta non demorde, le faccio segno di tacere…. un cazzo, le sussurro che è meglio lasciarti dormire ma lei ricomincia a fare domande. Alla fine mi spazientisco di brutto, mi alzo e la giro verso la finestra dicendole di distrarsi un po’ guardando fuori. Non mi parlerà anche con la schiena girata o no? Dopo due minuti di silenzio si alza la voce lamentosa che a guardare fuori stu’ mal me gira la testa. Le gira la testa alla brutta stronza. Arriva Alessandro, ci guardiamo e abbiamo la stessa idea…. apriamo la finestra e la buttiamo di sotto. Ti svegli e io riparto con il massaggio, per distrarti mi viene in mente di dirti che la domenica del fatto hanno pubblicato un tuo articolo. Mi chiedi su cosa e io furbissima: ”sul Corriere” e tu con una vocina paziente mi dici: ”Sì, certo, ma su quale argomento?” Scoppiamo a ridere tutte e due, si direbbe che il cervello affogato nel sangue ce l’ho io e non tu! La sera stai malissimo, aspetto con Andrea fino a tardi il risultato della TAC, torno a casa che sono quasi le undici, depressa, come si fa a lasciarti lì senza sapere come passerai la notte, cosa succederà. Il sabato pomeriggio rimaniamo sole io e te. Parliamo molto, mi dici cose bellissime, parli di Gaia, di te, di me, tiri fuori cose lontanissime. Non voglio parlare perché vedo che ti si alza la pressione, ho paura che ti possa danneggiare, cerco in tutti i modi di sviare la conversazione ma tu insisti. Parli anche di O., mi dici che tu questo bambino non lo volevi e che temi che Andrea lo abbia voluto per dimostrarti come fosse sicuro di stare con te per sempre. Che lo sapevi che sarebbe finita male, che te lo sentivi. Alla fine ti appisoli e arrivano i C., lei non vuole entrare. Dio ha una faccia da Maria pentita che mi fa subito girare i santissimi. Le dico che se vuole entrare cambi faccia. Tu sei agitatissima, chiamo gli infermieri cento volte. Perché ti giri e rimani intrappolata tra i fili, perché ti scappa la pipì, perché hai mal di testa, perché vuoi alzare un po’ il letto…insomma un disastro. Se ne vanno i C. e arrivano Alessandro e poi Andrea. Vado a casa sono sfinita. Il buio della strada dell’Idroscalo mi induce a cattivi pensieri, ripenso a tutti i tuoi discorsi, bellissimi, teneri, profondi, che non avresti mai fatto se non avessi avuto il cervello affogato. Mi si infila nella mente un pensiero insidioso, le tue parole mi sembrano quasi un testamento. Mi vengono i brividi ma per fortuna sono sulla Paullese fra un attimo sono a casa, devo sentire la storia a Jacopo. La domenica mattina è il turno di Paolo, lo sarà per tutti i giorni che sarai in ospedale. Se stavi male non lo diceva, ma lo capivo perché si faceva una camomilla anziché mangiare, se ti trovava bene enfatizzava la cosa. Ti teneva aggiornata sulla politica e sulla società, chissà se ti rimaneva qualcosa di quello che ti diceva. La domenica pomeriggio tocca a me. Siamo sole come il giorno prima e tu ricominci a parlare, insisti sul fatto che Luca non lo volevi, non lo volevi proprio. Ti dico che ti sarebbe potuto capitare lo stesso e che è un bambino magnifico e che lo amerai più della tua vita, ma tu passi rapida da un discorso all’altro. Mi dici che avresti voglia di scrivere un libro di favole per bambini, anzi che lo potremmo scrivere insieme. Cavolo perché no?! Il tempo si trova potremmo metterci insieme che idea! Sì ma la prima cosa che intendi fare quando uscirai da lì sarà prenotare una suite all’Hilton o non so in quale cazzo di hotel e starci due giorni a bere vino e a scopare con Andrea. Sì, cazzo, che bell’idea, sì è proprio una bell’idea. Ma prima deve venire l’ostetrica e dire che l’hai chiamata da oltre due giorni e non si è ancora vista. Perché hai qualche problema ginecologico? Ma và, che problema ginecologico, ho un problema di contraccezione e che cavolo non vorrei trovarmi tra venti giorni ancora incinta. Ma ti pare che tra venti giorni avrai problemi contraccettivi? Magari! Che ti frega adesso, di tempo ce n’è ancora un po’. Un po’? Non se ne parla che io possa rischiare un’altra gravidanza. Ma comunque la prima cosa che voglio fare è bere vino e scopare come un riccio. Arriva Chiara, ti calmi per un po’ poi ricominci a parlare. Ribadisci punto per punto tutto quello che hai detto prima. Chiara cerca di zittirti, si gira imbarazzata verso la tua vicina di letto che finge di non sentire niente. Ci guardiamo e ridiamo un po’ titubanti, le cose che dici, a parte l’ostetrica, non sono senza senso, ci sembra però che tu abbia perso un po’ di freni inibitori. Usciamo un attimo, Chiara fuma una sigaretta e ripensiamo a quello che hai detto, cominciamo a preoccuparci, sta succedendo qualcosa o è semplicemente la voglia di normalità? Arriva Andrea, stanotte dorme qua perché tu sei agitata e lo vuoi vicino. Lunedì non vado, siamo d’accordo per martedì primo pomeriggio. Laura è preoccupata, che abbia la febbre? Straparla in continuazione, avvertono i medici. Quel dannato pensiero non mi dà tregua. Martedì alle due esco e prima di salire in macchina chiamo Andrea per dirgli che sto arrivando, mi risponde di fare con calma che sei ancora in sala operatoria. In sala operatoria? Mi viene un colpo, Perché? Perché è arrivato il vasospasmo ed è arrivato così potente e devastante che non è un vasospasmo ma il top, il re dei vasospasmo. Mi dice che se ti fosse venuto un filino più forte avrebbe preso anche la tua vicina di letto e sarebbe rimbalzato anche su quell’altra. Mi dice che ti hanno fatto tre angioplastiche, una alla carotide e due in testa. Arrivo in ospedale, sono tutti lì, anche Matteo, Alessandro, Emiliano e Chiara. L’intervento è andato bene ma devi tornare in reparto di terapia intensiva e non si sa che danni avrai riportato. E’ un incubo. Questo è un incubo. Andiamo tutti ad aspettarti nella saletta della T.I. E’ stato ricoverato un ragazzo come te anche lui con un aneurisma, anzi piu’ di uno. Rimango a parlare con Emiliano di politica di lavoro di sanità di Luca delle bambine di come sarà dopo di cosa succederà, finalmente ti portano su. Ci chiama una dottoressa, entriamo tutti nello studio. E’ molto gentile e molto chiara. Ci spiega tutto benissimo, facciamo domande, il fatto di essere in tanti fa sì che se a uno scappa una cosa venga in mente all’altro. E quando siamo fuori ci confrontiamo e non ci sono dubbi sulla chiarezza della sua esposizione. Laura è disperata, facciamo tutto il corridoio abbracciate con lei che singhiozza. La situazione è drammatica. Drammatica. La dottoressa ci ha mostrato la RSM, il cervello è invaso di sangue e questo porta una serie di problemi enormi. Non c’è altro sistema che il drenaggio che comporta tutta una serie di rischi. Non sanno il vasospasmo cosa possa avere provocato, cosa può avere danneggiato. Ma un vasospasmo di quell’entità difficilmente non lascia tracce. Entriamo nella tua stanza e svuotiamo il tuo armadietto. Nella stanza c’è una signora calabrese. Portare a casa la tua roba dà un senso di definitivo, è come essere ritornati a quella dannata domenica. Usciamo dall’ospedale abbracciate. Dico che non dobbiamo disperare che non è possibile che ci sia stata data una sola settimana in più. Una settimana in più per rivederti, per risentirti, per sperare, per tirare un sospiro, per cominciare a credere e poi sprofondare nell’abisso. No, non è possibile sarebbe troppo crudele. Troppo. Torno a casa così abbattuta che non parliamo tutta la sera. Mi chiamano per avere notizie, Giovanna quasi tutte le sere, si commuove ogni volta e mi dice che prega. Prega sì che ne ha bisogno. Prega zia Lucetta, sì prega per favore. Prega zia Armida, sì ti prego prega anche tu. Sì, pregate tutti, che tutto questo amore non vada sprecato, perché chissà che tutti questi pensieri positivi non facciano il miracolo…. che questi bambini abbiano ancora la loro mamma, che una mamma abbia ancora una figlia, che una donna abbia ancora la sua vita… vi prego pregate tutti, preghiamo tutti. Jacopo mi chiede se andremo a Camugnano. Non credo, non credo proprio. Gli spiego bene cosa sta succedendo ma lui, che non mi ha mai fatto domande, sembra che non voglia ascoltare, che non voglia sapere. Già, è una cosa troppo grossa per noi figurarsi per un bambino. Ti sei svegliata, che gioia, sei molto affaticata ma parli, un po’ confusa ma presente. Sembra che non muovi bene una mano. Chiara dice che hai la bocca un po’ storta ma quando ti vedo ti trovo anche bella. Vicino a te quel ragazzo sta morendo, non c’è niente da fare e se per caso dovesse sopravvivere rimarrebbe cieco. Questa volta il tuo “Come stai?” me lo chiedi piano piano, poi chiudi subito gli occhi. Ti accarezzo un pezzettino di mano libera da ditali, cerotti, fili. Difficile trovare un po’ di pelle libera da impicci. Esco sollevata ma triste, cel’hai fatta, ce l’hai fatta anche questa volta, so che sarà lunga. Sarà lunga ma ce la farai. Per qualche giorno non vengo da te, Laura mi dice che è meglio, l’agonia di quel ragazzo è straziante, i suoi parenti sono disperati e noi abbiamo pudore di mostrare la nostra contentezza per i tuoi miglioramenti. Potevamo essere al loro posto. C’è anche un’altra persona che muore. Penso a quei medici che non vedono altro che disperazione. Mestiere difficile. Difficile l’impatto con i parenti. Difficile sapersi rapportare con loro con la delicatezza necessaria. Mi viene in mente il dottorino con l’aspetto del missionario che si è accovacciato vicino ad Andrea quando aspettavamo che tu tornassi dalla sala operatoria e gli parlava. Quel tono di voce così lento e compassionevole ad un certo momento mi aveva infastidito, pensa un po’, puro stile CL avevo pensato, cose da pazzi. Uno non è mai contento, se uno si mostra umano ti dà sul culo, se un altro non ti da le informazioni nella giusta maniera ti fa infuriare e si dice sanità di merda. No a noi le informazioni non sono mai mancate e neanche l’umanità. Siamo nelle loro mani. C’è un problema, hai il sodio basso, non sanno perché lo perdi. I medici ci dicono che fra qualche giorno ti riporteranno in reparto. Noi non vorremmo. Ci sentiamo più sicuri a saperti lì, ci sembra che tu sia più controllata. Ci spiegano che invece proprio lì sei più a rischio di infezione che altrove. Il sodio è uno dei problemi. Non sono passati molti giorni, ti hanno riportato nella tua camera. Questa volta sei nel letto vicino alla porta. Sei un po’ più tranquilla, mi sembra che ti lamenti meno dei dolori alla schiena e al collo. Sonnecchi quasi sempre, ti stanchi presto ma quando arriviamo ci saluti con gioia, parli con tutti fino a che non chiudi gli occhi, così per lasciarti riposare ci rifugiamo spesso sulle scale dove chi fuma approfitta per fare un tiro e contemporaneamente il punto della situazione. Ti ho portato i mandarini, li hai mangiati con voglia. Non chiedi molto dei bambini, tutta la tua concentrazione è su di te. Non vedi bene, Paolo la domenica mattina è arrivato con il giornale e tu a mala pena sei riuscita a leggere i titoli quasi cubitali. Ci dicono che sono i grumi di sangue nel fondo dell’occhio che impediscono la visione, dovrebbero riassorbirsi, di questo nessuno sembra preoccuparsi troppo. E’ una cosa che verrà affrontata più avanti se sarà il caso. Tu sonnecchi molto ma quando sei sveglia sei assolutamente presente. Ti hanno rasato la testa, stai bene così, scherzo, ti chiamo la nostra Sinead O’Connor. Tutto va in modo diverso dall’altra volta. Rimani molto con gli occhi chiusi, non ti lamenti. Noi ti lasciamo tranquilla il più possibile. Quando arrivo trovo quasi sempre Alessandro, o arriva subito dopo, ormai è un appuntamento fisso. Poi saliamo dal bambino. Parliamo molto, mi piace questo ragazzo, ha dei begli occhi, un sorriso aperto, è sensibile, discreto, pronto ad assecondare ogni tuo più piccolo desiderio. Un giorno arriva con un dolce fatto da tua suocera, ma siccome era in moto l’aveva shakerato un po’, abbiamo riso quando ha aperto il contenitore ma l’abbiamo mangiato tutti, vicine e infermiere comprese. Tu eri deliziata. Parlottiamo piano fra noi quando ti vediamo assopita ma quando ti muovi e ti parliamo tu rispondi subito a tono. Ci accorgiamo però che dopo un po’ non ricordi di cosa stavamo parlando, confondi il mattino con il pomeriggio, non ricordi cosa hai mangiato a pranzo, spesso faccio le prove: ti racconto di Berlusconi e di Bossi e tu ridi, rispondi immediatamente ma dopo un‘ora quando faccio riferimento a quello che ti ho raccontato vedo che l’hai rimosso, tu sei pronta a dire “Ah, già” ma non mi convinci. Il sangue continua a riempire lentamente il barattolo, ma quanto ce n’è ancora? Oggi l’ho trovato di uno strano colore aranciato, lo faccio presente ma il medico alza le spalle, non vuol dire niente. E’qualche giorno che hai la febbre, ti hanno fatto la coltura dei batteri sul sondino perché può darsi che sia infetto. Fa caldo ma tu stai sempre sotto un sacco di coperte di lana, hai freddo. E’ venerdì, ormai sono quasi tre settimane da che è successo. Sono uscita alle due e mezzo, incrocio i tuoi sulle scale, stanno andando a casa, mi sembrano stremati, ti hanno lasciata con Alessandro, sei febbricitante ma lucida come al solito. Inizialmente non mi ero accorta che non vedevi bene, ti trovo sempre con gli occhi chiusi ma quando ti tocco la mano li apri subito e sei contenta di “vedermi”, mi chiedi di tutti, di Jacopo particolarmente. Ti piacciono le piccole cose che ti porto, mangi con gusto ma hai sempre i cassetti pieni di caramelle e cioccolato…. ti dico vedrai il conto del dentista alla fine! Non ti alzi volentieri, bisogna insistere molto, l’altro giorno Chiara ti ha fatto finalmente il bagno, mi hai detto che è stata una goduria ma per convincerti ce n’è voluta! Ma adesso come si fa a farti alzare con questa febbre. Andrea ha attaccato sul muro accanto a te una bella foto di Luca e di Asia ma tu non la guardi mai, probabilmente nemmeno la vedi. Dico ad Alessandro di andare pure a casa che aspetto io Andrea, questa febbre mi preoccupa molto. Il pomeriggio tardi ci comunicano che la coltura ha dato esito positivo, devono per forza sostituirlo. La febbre è data da una meningite batterica. Quando ce lo dicono Andrea dà giù di cotenna, comincia a telefonare a tutto il mondo. Ti portano giù per sostituire il sondino. Andrea è disperato, si butta sui gradini del pianerottolo, crede che tutto ricominci come prima, che ti riporteranno in terapia intensiva, che non sapremo come sarai quando ti sveglierai insomma tutto daccapo. E’ come impazzito telefona a sua madre a tua madre a tua sorella a suo fratello CAZZZZZO. A Chiara e a tua madre le richiamo io dico che ancora non sappiamo niente che non appena sapremo qualcosa chiamiamo ma di non precipitarsi lì che al momento è inutile. Momenti di grande apprensione e paura. Arriva il medico e andiamo dentro a parlare. E’ il medico che ti impianterà il nuovo sondino, dice di stare tranquilli che dopo non è prevista alcuna terapia intensiva, che è molto facile che questo accada, anzi sarebbe stato strano non fosse accaduto, che tre settimane lo stesso sondino sono decisamente troppe, ma nel tuo quadro, che non è certamente dei più belli, la sostituzione del sondino è l’affare meno problematico. Certo un nuovo buco in testa non è né piacevole né facile, non si sa mai cosa possa provocare ma non c’è alternativa.. Usciamo un attimo più sollevati. Aspettiamo che ti riportino su. Andiamo nella saletta, Andrea si riattacca al telefono. Vorrei strozzarlo, prima o poi quel cazzo di telefonino glielo faccio volare in strada. Comincio a parlare… magari lo distraggo, parliamo molto, di vini, di ristoranti di stronzate varie… tutto per far passare il tempo e non pensare. Voleva andare al funerale del ragazzo morto per aneurisma vicino a te, gliel’ho caldamente sconsigliato. Non è per indifferenza ma perché al nostro dolore non si può aggiungere anche un affanno altrui, alla fine si va in tilt veramente e in questo momento è un lusso che nessuno di noi si può permettere. Lui è rimasto molto in contatto con questa T. che era la donna del ragazzo. Una non giovanissima ma molto appariscente, anzi troppo per i miei gusti. Mi racconta di quanto sia distrutta, e sì lo posso capire una cosa scioccante come questa lascia senz’altro il segno. Ma un pensiero perfido, classicamente femminile, mi si insinua nella mente. Ricordo come si presentava lei in terapia intensiva e a come ci presentavamo noi. Noi arrivavamo come eravamo jeans, tuta, nessuno aveva la testa di abbinare i colori. Lei arrivava tutti i giorni con abiti diversi con spacchi e scollature profondissime, dici “ma questo è il suo abbigliamento non ha altro nel guardaroba”, sì ma cazzo diceva di non avere testa per andare a lavorare ma per abbinare reggiseno e tanga bordeaux o rosa o verde (perché i completino erano visibili) ce l’aveva eccome. Strideva con la sobrietà dei parenti di lui e con l’ambiente dove eravamo. Sto quasi per sbottare e dirglielo ad Andrea: che non si preoccupi troppo che da qui a qualche mese avrà trovato già qualcun altro che la consoli, di pensare a se stesso che ha due figli e se a te va male i suoi sì saranno davvero cazzi, ma poi decido che non è certo il momento. Tanto gli uomini non capiscono una beata mazza di niente. Si fanno infinocchiare come degli imbecilli, basta piangere un po’ sulla loro spalla e via. Sono le dieci passate e arriva Alessandro con un tupper con dei cracker, del formaggio e delle noci. Quello che aveva in casa. Apprezziamo molto e divoriamo tutto. Grande Alessandro! L’attesa non è lunga, ti riportano in camera con un sondino nuovo di zecca. Sei sveglia, dolorante, ma LUCIDA, ci saluti piano, non sanno come prenderti per farti meno male possibile, ti lamenti molto ma ci sei tutta… mi viene da piangere. Questo stress ci uccide, ci uccide tutti. Stavolta chiamo tutti io e li rassicuro….. è andata bene. Torno a casa, è molto tardi, ho anche paura al parcheggio… dannazione ho la macchina lontanissima, non c’è un’anima in giro. Rimugino sulla meningite, mi terrorizza, e pensare che quando la tua vicina di letto raccontava la sua esperienza (un aneurisma senza vasospasmo ma con una meningite) mi era sembrata una cosa enorme. L’aveva avuto da un anno e raccontava come questo fatto le avesse cambiato la vita, non aveva avuto danni, parlava e camminava normalmente ma la stanchezza la uccideva, sposata due figli adolescenti un lavoro a tempo pieno e quando caricava la lavatrice rimaneva senza forze. “Mi dici come si fa?” mi diceva “ Come faccio, prova a pensare a come posso fare?” Era lì per un controllo…ma quando le hanno detto che poteva riprendere la sua vita come prima lei e suo marito erano al settimo cielo. Non so come farai tu ma adesso l’importante è riportarti a casa. Non c’è tempo di pensare a come sarai a cosa farai a cosa succederà, l’importante è riportarti a casa. Casa… finalmente a casa, tutti mi aspettano tranne Jacopo che dorme, la cena è ancora in caldo ma chi mangia a quest’ora … e poi mi scoppia la testa, racconto le cose successe. Mi fanno un sacco di domande. La meningite è la cosa che colpisce in assoluto. Sabato pomeriggio vengo con Matteo, piove e sulla strada ci sono grandi pozze. Siamo in silenzio con la testa piena di pensieri, sta andando piano perché c’è gente e stiamo per entrare nel parcheggio quando improvvisamente sentiamo un botto tremendo sul vetro e un pazzo che urla e mi copre di insulti. Ci prende un colpo, ci guardiamo smarriti poi di colpo Matteo esce come una iena dalla macchina e branca il ragazzotto che ci urla di tutto. Capisco che Matteo ha beccato una pozzanghera e ha spruzzato ma non lui, un qualcuno che non è più neanche lì e lui ha dato un’ombrellata all’auto e della puttana a me. Matteo gli strappa l’ombrello dalle mani e glielo butta via e quello si infanga veramente, io urlo a Matteo di lasciarlo stare… Matteo, che non l’ha neanche toccato ma muore dalla voglia di triturarlo gli urla un po’ di insulti e risale bianco come un morto. In macchina si sentono come due tamburi, il mio e il suo cuore. Che spavento, mi sento stordita dall’agitazione. Parcheggia e rimane fermo, bianco di rabbia, gli do un cazziatone come Dio comanda. Perché avevo torto? Cazzo me ne frega se hai torto o ragione se tu dai un pugno a uno lo secchi, ti rendi conto o no? Io a quello non l’ho neanche toccato. Cazzo sei uscito come una furia. Non l’ho toccato. Me ne frego l’intenzione c’era.. si parla con la bocca non con le mani. Scendiamo tutti e due stravolti e con gli occhi da matto, il solito senegalese questa volta non ci viene vicino, spira brutta aria. Facciamo tutta la strada in silenzio poi sull’ascensore Matteo mi dice ”Bè, allora non vuoi più bene al tuo bambino?! E io che ti ho anche difeso” Neanche gli rispondo. Passerà la sera a cercare solidarietà in giro e tutti, compreso suo padre, gliela daranno. Io gli uomini non li capisco. Ti troviamo stanca e febbricitante, ti stanno ancora trattando con gli antibiotici, ci vorrà ancora qualche giorno prima che ti passi. La tua vicina si chiama Rosi, è calabrese e ha due figli, passa tutto il giorno a lamentarsi, a volte forte, in modo disperante. E’ conciata male, sembra abbia un tumore ormai in stadio avanzato che le provoca dei dolori lancinanti. E’ giovane, più di me, ma sembra molto più vecchia. A te non dà fastidio, anche quando piange e urla tu non ne sei infastidita, la compiangi, ti dispiace molto. E’ una brava donna, tenera, le poche volte che sta decentemente si informa su di te, sui tuoi bambini, alla fine diventiamo amici, siamo proprio sulla stessa barca.
L’ATTESA
Il racconto di Maria si interrompe. Per settimane, forse mesi, mi è arrivato a brani, quasi con il contagoccie, via mail. Ogni volta che aprivo la posta e vedevo il suo indirizzo, mi balzava il cuore in gola. Leggo talmente tante volte da conoscere quasi a memoria le sue parole. E mi sembra di riconoscere episodi, fatti, situazioni. Ma non so se è vero, anzi, forse è semplice autosuggestione. Quando poi il racconto smette di avanzare, ci penso, mi rammarico, ma rimuovo. Non faccio fatica ad immaginare quanto costi ricordare, scrivere. E succedono tante altre cose, la vita va avanti, crudele e bellissima. E allora accantono il pensiero. Solo che in me c’è sempre un tarlo. Quelle settimane, quei mesi, sono sempre lì. E sempre lì è la voglia di ricucire pezzi ed emozioni, di raccontare. Perché una parte di me continua a pensare che non può non esserci un senso. Quale che sia, mi chiedo come sia possibile che sia toccato a me? Non la malattia in se stessa, ma l’essermela cavata. Perché io? Mi appare sempre più chiaro che i medici non avevano nessuna speranza, che nessuno credeva potessi uscirne, tanto più come ne sono uscita. E allora, perchè? Perché ho due bambini? Perché ho avuto attorno una famiglia che ha sfruttato ogni goccia di energia per darmi forza? Perché ho avuto fortuna? O forse solo perché dovevo fare qualcosa, fosse anche solo raccontare? C’è molta presunzione, in questo pensiero, ma ci sono giorni che mi sembra che forse l’unico senso possibile sia proprio questo, testimoniare quanto sia fragile, preziosa, impagabile, ogni singola ora della nostra vita. E scrivo, racconto mille volte la stessa storia, la giro, la rivivo. Dimenticando. Rileggendo le parole di Maria. Ci sono episodi, piccoli frammenti, che riconosco. Pezzi di un puzzle che nemmeno sapevo di essere impegnata a mettere insieme che trovano con naturalezza la loro giusta collocazione. E’ una sensazione strana, stranissima, guardare alla propria vita attraverso occhi altrui. Mi sento indiscreta, perché in quelle pagine c’è mia zia, le sue emozioni, il suo modo di affrontare la vita, la forza con cui ha superato tanti momenti terribili. E io le ho chiesto di farmi guardare dentro. Di mettersi a nudo davanti a me. C’è una parte di me che sembra aver conservato la follia di quei mesi di ospedale, quando ogni freno inibitore era svanito, quando dicevo qualunque cosa mi passasse per la testa e quando il senso del pudore, quello che ti frena e ti impone controllo, gentilezza, cortesia e rispetto, era svanito in una nebbia di sangue e dolore. Ecco, quella vena di follia sembra non avermi abbandonata. La malattia, forse, ti costringe a guardarti con occhi nuovi, a dare importanza a cose che in passato non avresti degnato del più piccolo pensiero. Ma ti trasforma anche in un essere egoista ed egocentrico. Ti sembra di essere al centro del mondo, che ogni cosa debba ruotare attorno a te e che nulla sia più importante della tua storia. Non so spiegarmelo. In parte credo sia una forma, l’ennesima, di autodifesa. Ci sono giorni nei quali mi trovo a pensare che se stessi combattendo con danni reali, con un programma di recupero di quelli che lasciano poco spazio ad altro, forse non avrei nemmeno il tempo di assillare il prossimo con i miei piccoli, insignificanti guai. Mi sono scoperta quasi ad invidiare due colleghi ai quali è capitata un’avventura simile ma che per lunghi mesi hanno dovuto lottare anche solo per riuscire a tornare a parlare. Io sono stata fortunata, ma una parte di me, sempre quella carogna, si chiede se la rabbia, l’angoscia, l’ansia che mi prendono giorno dopo giorno non siano a loro volta una condanna. Dalla quale temo di non poter uscire perché non esiste fisioterapia capace di guarire cicatrici della mente. Torna a farsi vivo il mio lato drammatico, ne sono consapevole. Combatto, ma non so se le armi scelte sono quelle giuste. Armi: le uniche in mio possesso, la scrittura. E scopro che, senza nemmeno accorgermene, senza ricordarmene, ho buttato giù in tempi diversi pensieri, parole. Frammenti, che raccontano dei primi mesi a casa. Parole spesso ripetitive, ricordi ossessivi, diario delirante di qualcuno che nemmeno ricorda chi o cosa era. La scena si ripete uguale quasi ogni giorno. Mi siedo davanti al computer, accendo e mentre aspetto che parta costruisco frasi, esploro emozioni, decido attacchi. Poi apro la cartella "giochi", faccio partire il solitario e per un po' faccio finta di essere impegnatissima a riconquistare la solita confidenza con le parole scritte. Perché in realtà lo so che ho paura. Paura che non sia più come un tempo, quando mi bastava prendere una biro, o sedermi davanti al computer, e le parole uscivano da sole. Di qualunque argomento si trattasse, privato o di lavoro. Le parole uscivano da sole e il mio unico problema è sempre stato riuscire ad essere abbastanza veloce da star loro dietro, per non perdere nemmeno una riga… parole che, da sole, raccontavano storie o illustravano emozioni e non ho mai capito come diavolo fosse possibile ma ci riuscivano, mi ci riconoscevo davvero. In quelle righe c'era sempre la stessa emozione che avevo dentro. Non so se poi anche chi leggeva la ritrovava, ma l'importante è sempre stato vedere un frammento di me su carta. E la paura peggiore, adesso, è proprio questa. Perché i pensieri se ne vanno per i fatti loro e non riesco a metterli in ordine, e quando scrivo, per la prima volta in vita mia, faccio fatica e poi non mi ci riconosco. Lo so, a livello razionale, che è solo questione di tempo, ma forse perché in realtà non ho mai capito da dove uscivano le parole, allora è ovvio che non sappia nemmeno come fare a tornare a quella "magia"… Boh, in fondo lo so che sono stupidaggini, che un po' c'entra anche il mio sviscerato amore per il melodramma, che a ben guardare dovrei solo che star zitta e muta, ringraziare e poi ancora una volta ringraziare. Qualche volta, quando la mia testa prende questa direzione di pensiero, mi chiedo perché, cosa voglio davvero. Forse costringere le persone che mi sono attorno a dirmi "ma no, ma guarda come sei a posto", quasi a rassicurarmi da un lato e a nutrire il mio smisurato ego dall'altro… magari è proprio così, spero di no però. Spero in realtà che sia solo una fase, un periodo in cui ho bisogno di riempire i buchi che mi porto dentro, autoconvincermi che la testa va comunque bene - ma ne siamo davvero sicuri???!!!??? - e che possa fare quello che so di volere davvero: chiudere la parentesi. In fondo ci provo. Ogni riga che scrivo, per quanto faticosa sia, è un piccolo passo in più.
Sindrome da pensieri ossessivi…frase che mi gira in testa da un po', da quando pensando di scrivere, raccontare, organizzare, metto insieme pensieri e parole. Poi finalmente apro una pagina bianca e di getto scrivo, scrivo, scrivo… alla fine salvo e cerco una cartella dove sistemare il tutto. E trovo altri brani di memoria, scritti in altri tempi e dimenticati. Il tema è sempre lo stesso, affrontato con parole diverse. Ma io non ricordo di averli scritti… sindrome da pensieri ossessivi. Esiste? Mah, non so, ma almeno tento di riderci sopra. E così sistemo il tutto, diventa una specie di diario. Ossessivo, appunto. Ma ancora una volta mi scopro fortunata: quelle parole scritte in tempi diversi, chissà quando, mi riportano emozioni e sensazioni… allora forse la "magia" c'è ancora, allora forse la mia vita sta tornando come era… Mi illudo? Forse. Ma lasciatemi raccontare. Che se interessa qualcuno, bene, e se no almeno sarà servito a me, ennesimo balsamo per ferite che non so nemmeno di avere…
"Mi raccomando, questa storia raccontala, pubblicala". "Non puoi non farlo, promettimelo, la scriverai in un bel romanzo". Facile, no. Forse perché scrivi per un giornale, e allora non puoi non essere capace. Solo che siamo sicuri che sia una storia in grado di interessare qualcuno? E siamo sicuri che io abbia quel non so che in grado di trasformare una normale storia di vita in "racconto"? Ma, soprattutto, c'è qualcuno capace di spiegarmi come faccio a superare il problema vero, e cioè che io, di quella storia, in realtà non so proprio nulla. Se lo dico, la gente mi guarda un po' incredula e un po' sconvolta. "Ma dai, proprio niente?". Già, proprio niente. Giusto brandelli di ricordi, e una storia che in realtà nasce da furti. Rubo i ricordi degli altri, succhio emozioni, sensazioni, memorie spesso contraddittorie ma per me preziosissime, come sangue per un vampiro, e mi ricostruisco due mesi di vita che, per me, sono null'altro che un vuoto. Un deserto che fa paura. Perché io in realtà quei quasi tre mesi li ho vissuti. Ho parlato, raccontato, fatto. E non mi ricordo. E allora come fai, adesso, a scrivere? Si, certo. Ci sono emozioni, sensazioni e speranze. Ma davvero interesserebbero a qualcuno? Dubito. Che poi, che storia è? Sono stata fortunata, come tanti prima e dopo di me. Sono stata ad un passo dalla morte, ho perfino provato il coma, e non ho proprio nulla da raccontare. Nessuna luce in fondo al tunnel, nessuna visione dall'alto e nessuna voce che mi ha riportato quaggiù. Uno dei primi ricordi certi che ho riguarda marito e sorella che, in tempi separati ma con identiche espressioni deluse per la mia risposta mi chiedono cosa si prova ad andare in coma… Delusi, perché la mia risposta è quella che si immagina: "no, non ricordo proprio un bel niente"… e pensare che loro, mi raccontano, parlavano, stimolavano, mettevano in atto tutte quelle tecniche che gli "esperti" consigliano per risvegliare dal coma. E io? Io proprio non ricordo niente. Chissà mai se sentivo, se è servito. Forse si, forse l'amnesia è solo una forma di difesa del mio cervello. Non posso non pensarlo, se è vero che quando ho iniziato a riprendermi ho chiesto a mia madre "chi ha pregato per me?", perché, questo si lo ricordo, avevo avvertito attorno a me una grande energia… o è solo una rielaborazione di frammenti di ricordi, collage di parole raccolte qua e là? Impossibile saperlo, e questo è parte del problema. Cos'è che mi appartiene davvero e cosa ho invece succhiato da ricordi, emozioni e pensieri altrui? Ho ancora idee, sensazioni, vita che appartengono interamente a me, o sto solo razionalizzando, organizzando e rielaborando tutto quello che ho preso altrove? Domande, sempre domande… smetterò mai? Altra domanda!
E' tutto un gran buio. Ci penso, sai, cerco di fare un po' di luce ma non ci riesco. Per questo mi serve chiedere, mi serve insistere, farmi raccontare mille volte cosa, e come, è successo. Perché è solo un grande buco. Io che mi vesto, io che dico si, chiama l'ambulanza. Poi mi vedo seduta sull'ambulanza e dopo, dopo basta. Il freddo in terapia intensiva. Un'infermiera che, lo scoprirò dopo, mentre mi riporta in reparto mi chiede se mi ricordo di lei. Poi ancora un'accozzaglia di giorni confusi. Io che rifiuto l'ipotesi di una meningite. E poi tubi, tubi da tutte le parti. Se ci penso lo so che doveva esserci un gran dolore. Ma non lo ricordo. Non è che mi manchi il ricordo, è che ho dentro una grande rabbia. Ho perso due mesi di vita, cancellati, tolti a me ma soprattutto ai miei figli e alle persone che mi vogliono bene. E' una rabbia assurda, lo so. Non c'è un colpevole, e poi in realtà non posso che ammettere di essere fortunata. Lo so che è un'immensa fortuna essere qui a pesare tutti i piccoli inconvenienti che mi sono rimasti…. E so anche che è una gran fortuna ritrovarsi qui a combattere con la paura. Perché il problema vero, adesso, è questo. Riprendere in mano ogni cosa, riconquistare sicurezza, addormentarsi la sera senza pensare "e se mi capita ancora…" Guardo i miei figli e non posso non pensare che ho rischiato di non vederli più, che è davvero una cosa così banale chiudere gli occhi. E questo fa paura. Per la testa girano migliaia di pensieri. Difficile metterli in ordine. La mia parte razionale continua a ripetermi che tutto andrà a posto, che già sono a buon punto e che non serve aver fretta. Ma non è così semplice. Mai avuto pazienza, mai avuta l'umiltà necessaria ad accettare di non essere "al top"… Alla fine passerà anche questo periodo. Alla fine la mia testa tornerà ad obbedire prontamente. Alla fine non mi sentirò più perennemente fuori posto. Lo so. Il problema è convincersi!!! E in fondo, è proprio quello che voglio.
I pensieri girano a vuoto. Parole, parole che si accavallano, costruiscono castelli. E davanti alla pagina bianca svaniscono… Capire quello che è successo. Primo obiettivo. Diciotto mesi a tentare di capire, spiegare, razionalizzare. Senza risultati. Perché? Perché quella paura? E perché tutto quello che è venuto dopo? Mi rivedo a febbraio 2003. Ho 36 anni, una bimba di quasi 4 anni, un marito, un lavoro che amo pur se precario. E in mano uno stick gravidanza. Positivo. Quella linea rossa, netta, marcata come non mai, è uno shock. Perché? Vero, non cercavo un secondo figlio. Vero, forse non era il momento giusto. Vero. Ma quella paura, quella morsa che stringe lo stomaco non ha spiegazioni. Oggi penso "un po' strega lo sono sempre stata, lo sapevo, una parte di me lo sapeva"… ma è una spiegazione? Se ripenso ai nove mesi di gravidanza, quel poco che ricordo, penso ad un periodo perfetto. Stavo bene, benissimo. Il bimbo cresceva bene, io stavo bene… bene… parola banale che rende, unica, l'idea. Su tutto, però, quella paura. Una morsa continua e costante che non sapevo spiegare… e poi le lacrime in sala parto: 14 ottobre 2003, vedo per la prima volta mio figlio, ranocchietto piccolo piccolo ma perfetto. E io scoppio in un pianto dirotto… con la prima non mi era successo. Perché? Poi normale convalescenza post-partum. Solo quel fastidioso mal di testa che non se ne vuole andare, e la pressione che sale, sale… il sabato mi dimettono. E qui i miei ricordi si fanno ancora più confusi… mi vedo in macchina, stupita e felice per la famiglia che mi circonda. Marito, figlia, figlio… inizia una nuova vita… e non so quanto è vero. Che ho fatto quel sabato? Non ricordo. Eppure devo aver fatto tutte le cose normali che ogni neomamma fa. Allatto, cambio il piccolo, lo lavo, coccolo la grande, preparo la cena, vado a dormire… L'ho fatto? Mi dicono di si. Io non ricordo. L'immagine seguente è il piccolo che dorme nel lettino, la mattina di domenica 19 ottobre, e io che mi vesto. La grande e il papà sono usciti. Altro stacco. Persone in divisa mi aiutano a scendere le scale di casa. Salgo su una ambulanza. Arriva mia figlia che urla… vedo la sua bocca muoversi, ma non capisco le parole. Che è successo? Davvero ho urlato? Davvero ho chiesto un'ambulanza? Non lo so, devo affidarmi a parole altrui… Poi il buio. Non nebbia, non foschia. Buio, vuoto totale e assoluto. Mi vedo su un letto, attorno a me macchinari d'acciaio. Altra scena, un'infermiera mi spinge. "Ti ricordi di me?" "Sei quella che era in ambulanza…" Lei scuote la testa, sconsolata e, mi sembra, delusa… Ancora buio… Mi sembra di essere in una stanza enorme, scura. "Potrò allattare ancora?". Una donna, un medico, scuote la testa… non ricordo la risposta. Poi sento la febbre salire. "No, non può essere meningite…" So che accanto a me ci sono tante persone. Sento un'energia vitale che mi sostiene, ma non ricordo, non ricordo… Altra immagine, assurda: sono sulla balaustra di una scalinata altissima. Sotto di me, un salone immenso. Vedo mio marito, mia sorella, i miei genitori, medici ed infermieri… "aiutatemi, voglio scendere…" E poi ancora buio… mi sembra di dormire su un materasso gettato per terra. Sono sporca, abbandonata. Mi fa male tutto… E all'improvviso, la luce. Scopro che siamo ormai a metà dicembre. Cosa è successo? Mi raccontano tutto. Una, due, mille volte… la mia testa ascolta e cancella. I miei capelli… mi hanno rasato… le mie braccia… devastate da mille aghi. E gli occhi… "perché vedo tutto confuso e appannato?" Domande, mille domande a cui tentano di rispondere, prima con cautela, giri di parole che non danno soddisfazione. Mi arrabbio. Voglio sapere. Me lo dicono: aneurisma cerebrale. E all'improvviso tutto si spiega. Era lì, silenzioso. Aspettava, forse da anni, non meno di dieci. La gravidanza non c'entra, lo so e lo sanno tutti, ma forse ha contribuito a far esplodere quella bomba ad orologeria che avevo nel cervello. E una parte di me, forse lo sapeva, se lo aspettava. Solo che adesso accettare e affrontare quello che viene dopo… davvero è altra storia. Ricordo gli ultimi giorni in ospedale, circondata dai miei angeli custodi - familiari, medici e infermieri - ricordo il primo incontro con mia figlia (emozione senza parole, siamo rimaste abbracciate per minuti interminabili senza riuscire a parlare, ancora piango quando ci penso), ricordo la voglia disperata di vedere quel cucciolo che avevo avuto accanto solo per cinque dimenticati giorni, ricordo… ricordo la fame di casa mia e il terrore di affrontare una vita che non mi apparteneva più… Poi eccomi… sul cancello un cartello colorato "bentornata mamma"… dentro tutta la mia famiglia, e quello scricciolo che mi accoglie sorridendo… un balsamo a tutte le mie paure e le mie ansie. Ancora giorni confusi. Scendere e salire le scale rappresenta ogni volta una specie di viaggio mistico alla scoperta dell'ignoto. La testa piano piano ricomincia a funzionare. Gli occhi un po' si spannano. Gambe e braccia recuperano forza abbastanza da permettermi di prendere in braccio i miei figli… Sono mesi che ricordo a fatica, anche quelli. Sensazione di aver perso un anno di vita. Perché? La domanda in fondo è sempre e solo questa. E forse sarebbe semplicemente da archiviare… E alla fine torno da Maria. “Te la senti, zia? Proviamo?” Fa male, chiedere, la solita voce mi urla “sei pazza, lascia stare”. Ma c’è anche un sussurro che continua a ripetere “no, fallo. Metti un po’ di ordine, racconta”. E io obbedisco. Riprendo in mano ogni singolo foglio, leggo, ordino. E chiedo di ultimare quel racconto che per mesi ha rappresentato ossigeno per me e veleno per gli altri. Un pizzico di follia, molta presunzione e altrettanto egoismo. Ma se raccontare significa accettare, forse a qualcosa servirà.
ANCORA MARIA
No, non ti ho più scritto una riga. Lo so che aspettavi, era diventato un appuntamento fisso e adesso eri rimasta a metà, ogni tanto mi chiedevi di continuare ma lo facevi timidamente e io ti dicevo sì sì e poi non ne facevo niente. A tua madre che mi forzava ho detto che mi faceva soffrire mettere i miei ricordi su un foglio e che poi la notte non dormivo, così abbiamo messo un punto alla tua storia. Non hai più chiesto nulla. Lo so cosa hai pensato ma io sono così. Le cose dolorose le chiudo in un file con la password e le lasciò lì per sempre... indimenticate, fissate per la vita ma in un angolino dentro di me.Mi sembra che se non ne parlo sto meglio. E così pensavo di te... in fondo era finita bene e potevamo lasciarci alle spalle quei giorni, perchè tormentarci con i ricordi? Invece eccoti qui, sei tornata dopo due anni con prepotenza a chiedere conto... sei tornata con l'esigenza di sapere... di sgranare quei tuoi giorni persi. E io cosa posso dirti? Perchè non ti ho più raccontato nulla? Perchè a quel punto la tua storia, la nostra storia, era diventata un'altra cosa. Era diventata il secondo atto di un film inguardabile, la storia di gente stremata e tremante che credeva di avere patito tutto e sopportato tutto, gente che credeva di essersi lasciata alle spalle il peggio, che credeva che da lì in avanti tutto sarebbe andato bene, che sarebbe bastato solo avere pazienza. Cosa può capitare ad una che ha avuto un aneurisma, un intervento delicatissimo per chiudere la vena rotta,un drenaggio cerebrale, un vasospasma, tre angioplastiche, la meningite, un altro drenaggio? Nella nostra ignoranza pensavamo che non ci potesse essere altro... avevi avuto tutto e avevi superato tutto. Eravamo come dei pugili suonati che stanno in piedi a malapena, psicologicamente fragili come dei naufraghi che hanno affrontato tempeste e ora erano in salvo su un' isola completamente deserta. Stremati ma pieni di speranza... ecco come eravamo... e non sapevamo di essere a metà della tua storia. Dopo il secondo sondino la situazione era a poco a poco migliorata, lentamente la febbre era scesa e ti sentivi meglio, il sangue continuava a defluire nel barattolo e pareva non dovesse finire mai, a volte ti alzavi ma dovevamo forzarti, ti stancavi moltissimo. Spesso riuscivamo ad arrivare nella saletta, ma era un'impresa... ti guardavi intorno intensamente, fissavi tutti i cartelli sui muri e ogni volta dicevi che non vedevi quello che c'era scritto. Però non lo facevi pesare, la tua era una constatazione, non te ne lamentavi. Semplicemente aspettavi. Un giorno tuo papà ti ha spiegato quello che era successo e tu hai detto che lo avevi sempre saputo, ma avere questa conferma sembrava ti avesse rasserenato. Luca cresceva bene in mezzo a una famiglia che allora sembrava felice, ti puoi immaginare il delirio di quella casa? Ma era un delirio sano, allegro, Chiara ed Emiliano dissero, a ragione, che loro si erano presi la parte bella della storia. Io non lo vedevo quasi più, non c'era tempo, ma il saperlo lì tranquillizzava tutti. La sera, quando uscivamo, Andrea si attaccava al telefono con Chiara spiegando nei minimi dettagli come era andata la giornata, non so che mega batteria avesse il suo telefonino ma riusciva a stare incollato al cellulare ore senza che si scaricasse. La cosa buffa è che poi Chiara chiamava me per avere la conferma perchè lo sentiva troppo ansioso e non si fidava. Ad un certo punto avevi preso ad alzarti velocemente per andare in bagno, avremmo dovuto chiamare sempre l'infermiere per chiuderti il sondino, ma spesso te ne dimenticavi, scavalcavi il letto abbrancavi il trespolo e cercavi di dirigerti verso il bagno con tutti i fili che ti legavano a destra e a sinistra... quando capitava ero terrorizzata che ti si potesse sfilare qualcosa e c'era sempre l'urlo FERMA... ASPETTA... poi ti accompagnavamo alla porta del bagno, ti aspettavamo fuori e sembrava che tutto sommato le cose andassero meglio. I tuoi avevano preso a portarti da mangiare, quando arrivavo io in genere non c'era nessuno, spesso li incrociavo sulle scale, due parole veloci e poi su, arrivava Alessandro e poi finalmente Andrea con una grossa borsa termica. Bellissimo quando arrivava! Lo aspettavamo tutti, sembrava Babbo Natale.. tu che eri affamata di cibo di casa e di lui, e noi che, tra il fumo e gli aromi che uscivano dalla borsa, ogni volta cercavamo di indovinare cosa aveva portato. E tutte le volte non diceva mai quello c'era, ci lasciava tutti lì ad aspettare con trepidazione, ridevamo sempre, ti facevamo gli scherzi, nominavamo tutti i piatti che detestavi e anche tu ridevi curiosa ma non ci cascavi! Andrea arrivava sempre trafelato e ancora con su il giubbotto rosso e la sciarpa cominciva a tirare fuori contenitori su contenitori e così... una sera tortelli al salmone, una sera branzino con patate, una sera gnocchi al ragù..... riempiva il piatto a te e alla Rosi e quando c'era una terza anche alla terza! Li presentava bene i piatti, sembrava arrivassero dal ristorante, le donne erano tutte in brodo di giuggiole.Ti immagini, vanesio com'è, come gongolava? Io e Alessandro ci sdilinguivamo in complimenti alla cuoca e occhiate bramose, a volte impietosita ci facevi assaggiare qualcosa ma non eri mai molto generosa! A pensarci erano proprio dei bei momenti, e anche la Rosi che magari fino ad un attimo prima piangeva o si lamentava era lì tutta incuriosita ad aspettare il suo pranzo. Non credo che tua mamma al ristorante abbia mai avuto clienti più soddisfatte e bramose di voi due! Ecco non sono trascorsi nemmeno dieci giorni dal cambio del sondino che piano piano le cose cambiano, tornano i brividi, non vuoi più alzarti, rimani sotto cumuli di coperte... ricomicia con una febbriciattola leggera ma che ti debilita, ti rifanno l'esame batteriologico sul sondino. Dicono che è inevitabile che si sia infettato di nuovo, in genere non viene lasciato così a lungo ma nel tuo caso non si può togliere fino a che il sangue non si sia assorbito tutto. Ci guardiamo increduli.... la coltura batterica non dà esiti certi prima di 12-15 giorni... cosa faremo fino ad allora? Avevi appena finito la terapia antibiotica, non è possibile ricominciarne subito un'altra. Giorno dopo giorno assistiamo impotenti ad un tuo nuovo peggioramento. Quando arriviamo sei quasi sempre assopita, sei lucida perchè rispondi a tono, tenti anche qualche conversazione ma poi ti rimetti giù. L'oculista ha detto che sarebbe importante che tu stessi in posizione eretta perchè in questo modo il sangue sul fondo degli occhi si riassorbirebbe più in fretta ma tu non ce la fai. Hai sempre molto dolore alla testa e trovi sollievo stando sdraiata inoltre da seduta il sondino va chiuso e io mi chiedo cosa sia la priorità: gli occhi o far defluire il sangue? Chiediamo al medico: far defluire il sangue, ovvio. I medici sono molto presenti, ti segue il dottor Vimercati, un bel ragazzo dai capelli lunghi neri, simpatico e molto umano. Una domenica sera arrivò all'improvviso elegantissimo in vestito grigio e cravatta perfettamente annodata, alla nostra domanda curiosa rispose che era ad un matrimonio ma era un po’ preoccupato per te così era venuto a controllare. Questo per darti l'idea di come tu fossi seguita. Telefonavo a tua madre tutti i giorni e quello che mi diceva il mattino non corrispondeva mai a quello che trovavo la sera. La situazione cambiava di ora in ora. Capace che ti lasciavano in condizioni decenti e chi arrivava subito dopo ti trovava febbricitante e senza forze. Da Camugnano ogni sera telefonava qualcuno per sapere come stavi, ma credo che solo Giovanna, nostra amica di sempre, abbia avuto la percezione esatta di quello che stava capitando. Zio Remo, ad esempio, qualunque cosa io dicessi terminava la telefonata con la frase "Meno male... speriamo migliori" lasciandomi sempre con la sensazione di aver parlato da sola. Zia Lucetta uguale, finiva sempre con:"Signore ti ringrazio..." così non mi dilungavo troppo, perché il Signore lo ringraziavamo sempre tutti i giorni ma pensavamo anche che a questo martirio bisognava dare un taglio. Il risultato delle telefonate era quasi comico, se non fosse che nessuno di noi aveva voglia di ridere, perchè, ovviamente, in montagna tutti chiedevano notizie a loro pensandoli bene informati e così mi arrivavano chiamate del tipo:"Ma è ancora in ospedale?" "Ma quando la mandano a casa?" CASA? Capivo che loro erano lontani, lontani anche mentalmente, non volevano sapere quello che veramente succedeva, faceva male, troppo, e allora meglio stare nel loro bel mondo quieto, tranquillo dove la vita scorre lenta e quando capita qualcosa capita agli altri. Finchè una sera al solito finale non ci aggiunsi il mio, strepitando di alzare quel culo grasso e di venire a vedere di persona quello che capitava a sua nipote cazzo... che fare il volontariato agli altri non lo assolveva dagli altri obblighi ecchecazzo, e dopo tutti i miei santi e madonne per placarmi mi disse con una voce tremante quasi da bambino che lui non ce la faceva, non ce la faceva proprio. Credo in quel momento di aver perso il lume della ragione, perchè ce la facevano gli altri a vederti così? perchè era così sicuro di rivederti? come faceva a stare lassù da solo a far niente? Così travolto dalla mia furia alla fine disse che sarebbe partito a fine settimana. In casa tutti mi accusarono di avere esagerato, Jacopo mi paragonò a Medusa con i serpenti intorno, Paolo di avergli detto troppe cattiverie, Matteo scosse la testa, ma lui a fine settimana finalmente arrivò e tua madre fu contenta di vederlo e di piangere un po’ sulla sua spalla. E io non mi sentii affatto in colpa. Rimase una settimana e in quel periodo, anche se eri sempre febbricitante, lui ti trovò quasi sempre in condizioni passabili e quando partì, ironia della sorte, era contento perchè credeva che il peggio fosse passato. Qualcuno, forse tua madre non ricordo, ti portò un peluche di Asia e questo diventò una cosa importantissima per te, lo tenevi sempre sul guanciale, lo coccolavi, lo accarezzavi, una volta Alessandro scherzando te lo prese e gli legò le orecchie. Rimanemmo tutti stupiti perchè ti arrabbiasti moltissimo, fu una delle poche volte in cui ti vedemmo veramente infastidita. Andrea andava spesso a mangiare da Chiara per poter vedere Luca e una sera organizzarono anche un pigiama party, sembra che le bambine si divertirono moltissimo, fecero il bagno tutte e tre assieme e poi in pigiama fecero festa tutta la sera. In quei giorni Asia ebbe anche una festa di compleanno e Andrea la fece felice portandola in un negozio a comprarsi un bellissimo vestito azzurro che la faceva sentire una principessa, la sera qualcuno dovette sudare per farglielo togliere! Notavamo che Andrea stava andando in pezzi, logorroico di natura in quei giorni raggiunse il culmine mandando in crisi tutti, i tuoi e i suoi. Per ogni minima variazione allarmava tutti, stava ore al telefono con chiunque, forse era il suo modo di scaricarsi ma sta di fatto che portava i tuoi allo stremo. Un giorno arrivarono i C., ti trovarono in uno stato di sopore, li salutasti subito ma dopo poche frasi ti rimettesti giù con gli occhi chiusi. Arrivò l'esito della coltura batterica ovviamente positivo così ricominciarono con le terapie antibiotiche, venne un medico per comunicarti che ti avrebbero sostituito il sondino. Ti chiese se te la sentivi di affrontare l'intervento senza anestesia perchè ne avevi subite troppe e tu rispondesti subito di sì, chissà se avevi effettivamente capito. Eravamo molto preoccupati perchè la tua soglia del dolore era molto bassa, bastava che ti cambiassero la flebo perchè ti lamentassi, non capivamo mai se il tuo mal di testa fosse veramente insopportabile oppure no. Eri stata troppo manipolata, non sopportavi più che ti toccassero. Invece tutto andò bene, probabilmente ti diedero dei tranquillanti ma quando tornasti su eri calma e lucida. Ti rimase una leggera febbriciattola ma per qualche giorno parve che le cose andassero meglio. La febbre alta ritornò la sera del giorno in cui Zio Remo ripartì per la montagna. Quando glielo dissi non ci poteva credere. Furono quindici giorni di inferno, la febbre non ti lasciava un minuto, vomitavi, non riuscivi a tenere giù niente. Ti guardavamo perdere giorno dopo giorno le forze e la lucidità, eravamo disperati, avevi un batterio resistente agli antibiotici, non c'era niente che riuscisse a debellarlo. Uscivamo da te come inebetiti, arrivavamo a casa con la testa chiusa in una morsa di pensieri neri, eravamo arrivati a credere che sarebbe stato cento volte meglio che tu avessi avuto un tumore piuttosto che un aneurisma, non vedevamo via di uscita e anche i medici avevano cambiato umore. Rosi era tornata a casa in Calabria. Era stato tristissimo vederla andare via, avevamo pianto un po’ tutti perchè tornava a casa a morire. Guardavamo il marito e i figli e stavamo male a pensarli senza di lei, sembravano tutti perduti. Al suo posto arrivò una donna poco più grande di te, anche lei aveva avuto un aneurisma, ma fra lei e il marito non sapevamo quale dei due avesse il bene dell'intelletto. Non riuscivamo neanche a parlare con loro perchè lei era completamente sfasata e lui parlava troppo e a voce altissima. Insopportabili. Da qualche giorno notavamo uno strano cambiamento in te, avevi gli occhi sgranati, sembrava che ti sforzassi di guardarti in giro, inizialmente pensammo che questo effetto fosse dovuto al forte dimagrimento, ti era venuto un visino smunto e gli occhi spiccavano e invece no gli occhi erano proprio sbarrati, probabilmente a causa della meningite. Era qualche giorno che non ti vedevo così venni da te durante la pausa pranzo, ti trovai rannicchiata nel letto, ti salutai e ti accarezzai una mano ma tu apristi a malapena gli occhi e mi sussurrasti qualcosa che non capii. Ti chiesi se avevi mangiato ma non lo ricordavi, sapevo che i tuoi erano appena andati via ma tu non lo ricordavi, non ricordavi niente, niente... terrorizzata andai a chiedere se avevi la febbre e se si erano accorti che tu eri in quelle condizioni. Purtroppo in quel momento non c'era un medico disponibile così ritornai da te.. la tua vicina e il marito urlavano, lui mi voleva raccontare quello che le avevano fatto quei disgraziati di medici e tu mi dicevi qualcosa piano e io non capivo. Volevo strangolarlo, idiota che non era altro, non c'era verso di zittirlo. Ti rimasi vicino per un po’, ti accarezzavo sgomenta, non sapevo cosa potevo fare per te, non potevo fare niente per te. Non ci potevo credere, in così pochi giorni avevi avuto un tracollo, stavi rannicchiata in posizione fetale, eri talmente piccola che le coperte segnavano appena un rilievo nel letto, e poi quegli occhi chiusi e quelle manine strette a pugno così piccole da parere quelle di una bambina. Pazzesco, dopo tutto quello che avevi superato adesso rischiavamo di perderti per una stupida infezione. Pazzesco. Appena arrivata in ufficio cercai di chiamare tua madre ma erano già tornati da te. Non riuscivo a pensare ad altro. Pazzesco. Il pomeriggio tardi al telefono tua madre mi chiese come ti avevo trovato. Come ti avevo trovato. Capivo che ti vedeva male, ma sentivo anche che lei sperava, credeva che questa altalena alla fine potesse girare al meglio. Come facevo a dirle quello che veramente pensavo, come facevo a dirle che ti vedevo perduta? Chiara era di sopra coi bambini, me la feci passare. Con lei potevo parlare in modo schietto. Poche parole tenendo a freno l'emozione che stringeva la gola "L’hai vista?" "E' sconvolgente, guarda che non ce la fa, questa volta non ce la fa". Benedetta Chiara che si precipitò lì come una furia e rivoltò i medici come un calzino, il risultato fu che ti attaccarono subito una sacca di alimentazione forzata. Venne chiamato un virologo di fama internazionale, l'unica soluzione era provare un antibiotico sperimentale, non era detto che tu lo sopportassi e non era detto che risolvesse la situazione ma alternative non ce n'erano e così passarono giorni stressantissimi. Ti covavamo con gli occhi, sempre in attesa di un cambiamento nelle tue condizioni. Tua madre stava ore accovacciata vicino a te, parlandoti come ad un bambino piccolo, e quando si alzava il suo posto lo prendeva tuo padre. Non so cosa ti dicesse perchè quando ci avvicinavamo noi lui si alzava ma so che ti parlava a voce bassa, ti accarezzava la mano in un modo così dolce che ci faceva stringere il cuore.Che giorni...da non ricordare, credimi, da non ricordare. Finalmente cominciasti lentamente a migliorare, eri più sveglia, avevi quasi sempre la nausea ma riuscivi a tenere qualcosa giù. L'infezione erano riusciti piano piano a debellarla ma immediatamente sorse un nuovo problema. Le ghiandole linfatiche alla base della nuca si erano atrofizzate e non drenavano più il liquor. L'unica soluzione per evitare l'idrocefalo era inserirti un sondino che drenasse il liquido, questo sondino doveva essere posizionato davanti sotto tutta la muscolatura fino all'inguine. Lo sapevo che finiva così. Anche la mia collega aveva subito questo tipo di intervento. Quando ce lo comunicarono Andrea si disperò, poi piano piano finì con l'accettarlo, anche un amico di suo fratello aveva dovuto ricorrere a questo sondino e continuava a fare il poliziotto. Il fatto che tutti gli dicessimo che queste persone vivevano la loro vita come prima lo tranquillizzava. Sì, ma io non gli dissi che alla mia collega l'avevano sostituito tre volte prima che tutto procedesse bene. E chissà il poliziotto.... sarà vero che vive come prima? Ma tutti questi pensieri ce li tenevamo per noi, tanto non si poteva fare altrimenti... alla fine si accettava tutto tenendoci stretti alle nostre speranze. Prima di farti questo nuovo intervento dovevano essere sicuri che il sondino non fosse di nuovo infetto perchè erano passate delle settimane dall'ultima sostituzione così ti rifecero la coltura batterica.Chiaramente per avere il risultato occorrevano molti giorni e questo era rischioso perchè se al momento della coltura il sondino non era infetto poteva poi esserlo dopo. Insomma un cane che si morde la coda. Io diventavo pazza non riuscivo a capire perchè non potevano farti questo intervento subito, mi sembrava che fosse dannatamente più rischioso aspettare, mi spiegarono allora che una infezione localizzata nel cervello era un grosso problema ma che col sondino questa infezione poteva diffondersi e attaccare gli altri organi e questo sarebbe stato un problema ingestibile. Ecco. Non c'era un momento in cui si poteva tirare il fiato... Ma ti rendi conto, avevamo appena risolto un problema gravissimo che ne arrivava immediatamente un altro. Eravamo ad un livello di stress insopportabile, sembrava che non dovesse finire mai. Il terrore dei giorni passati tornò a serpeggiare sottile dentro di noi. E se ti fosse tornata l'infezione che tipo di antibiotici avrebbero mai potuto darti? No, pazzesco ci sentivamo in un girone infernale, non c'era via d'uscita. Al mattino e alla sera chiedevamo se erano arrivati gli esami, e sempre no. Ti studiavamo per vedere se stavi bene, ogni giorno ci pareva che tu avessi la febbre. Alla fine i medici decisero che era troppo rischioso aspettare oltre. Andrea non era d'accordo ma Vimercati disse che non c'era alternativa, avevano guardato la coltura e pareva che al momento andasse bene, non si poteva rimandare. Scherzammo con te perchè sapevamo che ti avrebbero messo un casco in testa, ma eravamo tutti molto preoccupati. Invece no, andò tutto bene, tornasti su tranquilla e lucida. Continuammo a spiarti per molti giorni, avevamo paura che tornasse la febbre, invece no. Un giorno che eri particolarmente in grazia chiamasti Asia al telefono, era la prima volta, eravamo tutti emozionati, fu una cosa breve e intensa. Sembrava che le cose andassero bene, ci fu il problema del sodio, avevi dei livelli troppo bassi, per cercare di recuperarlo mangiavi tutto molto salato, ma questo problema non ci preoccupava. Cominciarono a parlare di dimetterti... non ci pareva vero! Fu in quel periodo che vedesti finalmente Asia. Eri molto preoccupata, avevi paura che vedendoti con i capelli rasati e così piena di fili si spaventasse ma finalmente arrivò il giorno in cui ti sentivi particolarmente bene e così i tuoi ne approfittarono subito per portartela. Io non c'ero ma posso immaginare l'emozione, ancora oggi mi viene da piangere se ci penso. Dicono che ti manderanno a casa prima di Natale. Rimandano le dimissioni di giorno in giorno, capiamo che vogliono avere la sicurezza che tu stia bene. Sarà vero... non ci crediamo... sembra impossibile.... ma come sarà a casa? Ce la farai? E con i bambini? E le scale? E se ti senti male? Quanti dubbi, quante paure... paura che ancora una volta possa succedere qualcosa. Ma no invece da questo lato ci sentiamo tranquilli, vediamo che sei cambiata, sentiamo che la cosa è finita. FINITA.
A CASA
Finita. Si, è finita… I ricordi dell’ultimo periodo tornano a sprazzi, mischiati a episodi che a fatica colloco in altri periodi. L’ultima operazione, quella decisa come ultima chance… in realtà quando sono entrata in sala operatoria ero ormai al limite. Mia sorella mi ha in seguito raccontato che l’equipe chirurgica che mi ha accolto ha temuto non fossi in condizione di superare l’intervento. Non so se fosse la meningite, che ormai era in fase di guarigione, o come credo l’antibiotico che mi aveva provocato una reazione fortissima, debilitante. Fatto sta che quegli ultimi giorni sono assolutamente avvolti dalla nebbia, e ho un vago ricordo di qualcuno che mi prepara per l’intervento. E poi la sensazione di snebbiamento. Assoluto e improvviso. Apro gli occhi, è giorno, ho un sondino nel naso e dolore ovunque, ma mi sento lucida e forte. Chiedo mi liberino del sondino. E’ un ricordo netto, l’infermiera che arriva, procede. E il sangue che inizia a fiottare. L’emorragia prosegue a lungo, sembra che il sangue non voglia fermarsi… e poi all’improvviso smette. Scopro quello che mi hanno fatto. Ho un taglio in pancia, vicino all’ombelico, un tubicino sottile che mi corre dalla testa all’intestino, e una valvola sulla parte alta della nuca… dovrò imparare a conviverci, è una sensazione stranissima, mi sento una specie di cyborg… I giorni passano lenti e veloci allo stesso tempo, e io comincio a ricostruire quello che è successo. E mi accorgo che ad essere a brandelli non è solo la memoria recente. Ricordo poco, e male, anche i mesi precedenti. C’è un episodio che mi lascia a bocca aperta, che non so come interpretare. Me lo riferisce mia sorella, io non ne ho memoria. “Come facevi a sapere cosa ti sarebbe accaduto?” mi chiede. “Io? Cosa dici?” “Si tu – racconta Chiara – quel giorno che abbiamo portato le bambine a Milano, al Castello. Mi hai fatto giurare che se ti fosse esplosa una vena in testa mi sarei occupata dei tuoi figli”. Se mi fosse esplosa una vena in testa… Mi vengono i brividi. Vero, avevo avuto una sensazione negativa per tutta la gravidanza, ma davvero ho detto una cosa così? Accantono il pensiero, lo relego in quel cassetto dove tengo le cose più strane, e cerco di abituarmi alla nuova vita. Tornata a casa devo affrontare tante piccole difficoltà, che a volte appaiono insuperabili. La vista, prima di tutto. Mi avevano detto che sarebbe tornata nell’arco di un paio di mesi ma mi rendo conto in fretta che devono avermelo detto semplicemente per tranquillizzarmi. Gli occhi si snebbiano abbastanza da permettermi di leggere e scrivere, anche se con fatica. Ma ci sono giorni che mi appaiono nebbiosi come nelle stagioni peggiori di Milano, quando aprendo la finestra di casa non riesci a vedere neanche la ringhiera esterna. Di guidare, neanche a parlarne. E per settimane non esco neanche, se sono sola. Ho paura di attraversare la strada. Ma le settimane passano, arriva maggio, e un giorno decido. Un attimo di incoscienza, o una botta di vita… carico Luca sul passeggino, infilo la strada e cammino… ricordo il batticuore, l’ansia ogni volta che dovevo attraversare la strada. Ma ce la faccio. L’oculista continua a dirmi che piano piano i coaguli di sangue si depositeranno, che devo solo avere pazienza. Ma io scalpito. E in estate, ad agosto, sono in montagna con i miei genitori. Ci penso qualche giorno, poi ci provo. L’auto di mio padre, con lui seduto accanto a me… non è una giornata particolarmente calda ma io sono sudatissima. Però guido. Da quel giorno mi sembra di aver riconquistato una parte importante della mia vita. Sono sempre stata fiera della mia indipendenza, non ho mai amato l’essere accompagnata in ogni posto… per qualche mese evito di guidare di sera, la vista non è ancora perfetta, e non lo è neanche oggi a quasi tre anni di distanza, ma la “tendina” – così ho cercato di spiegare a mia figlia l’effetto dei coaguli sulla mia vista, una specie di frangia che mi appare più o meno estesa qualunque cosa io guardi – diventa parte di me e quando nonostante tutto l’oculista mi dice che ho recuperato i 10/10 per occhio… beh, mi viene voglia di festeggiare! Altro discorso è quello della forza fisica, della capacità di affrontare la vita di tutti i giorni con i suoi impegni e i suoi compiti. Mi stanco con una velocità assurda. Ancora oggi una normale giornata di lavoro è sufficiente a farmi sentire a pezzi. Mi sento in colpa. Non riesco più a giocare con i miei figli con la stessa scatenata spensieratezza che ha accompagnato i primi anni di Asia. Cerco di rimettermi in forma con interminabili passeggiate, aiutano, ma la sensazione di non essere più quella di un tempo è fortissima. E fa arrabbiare. Anche perché la testa continua ad andare per i fatti suoi, in un continuo avanti e indietro che è snervante. Ricordi, emozioni, sensazioni continuano ad accavallarsi senza ordine e senza logica. Così se da un lato mi godo i miglioramenti che, per quanto lenti, continuano ad arrivare, dall’altro torno costantemente ai mesi di ospedale. E’ un continuo avanti e indietro debilitante. Mischio così stupore e gioia per ogni novità positiva, e ansia, rabbia e paura per quello che è successo. Come quando una mattina, aprendo gli occhi, mi sono accorta che i colori erano tornati al loro posto, di nuovo vivi e vitali e non più slavati, o la gioia di Asia quando le ho cucinato il primo pasto, primo atto della decisione di riprendere a vivere davvero. E subito dopo, i ricordi dell’ospedale. Episodi che tornano ad affacciarsi. Ricordi non sempre simpatici, ma che almeno mi confermano la mia esistenza in vita in quel periodo. Vita, si, ma dovevo essere uno spettacolo, io che ho sempre avuto fama di persona seria e controllata. C’è ad esempio un piccolo episodio che ricordo come al solito a frammenti, che non so collocare nel tempo, ma che mi è stato detto essere vero. Io, serissima, che chiamo Andrea. “Dobbiamo darci da fare, dobbiamo lavorare, se non ci pensiamo noi, nessuno se ne preoccupa ma è una cosa della massima importanza, non possiamo far finta di nulla”. “Di che si tratta? – mi chiede lui – Che lavoro pensi di poter fare?” “Dobbiamo indagare – rispondo – c’è stato un omicidio, in ospedale. Lo so, l’ho saputo, ma nessuno vuole fare niente”… Incredibile, ma la cosa che ricordo meglio è il senso di urgenza che mi aveva afferrato, l’ansia di affrontare una “questione importante” che non dovevo, non potevo accantonare. Oggi penso sia successo poco prima del vasospasmo, di quando cioè ho rischiato di trovarmi con tutti i vasi sanguigni che irrorano il cervello chiusi da una specie di reazione allergica al sangue stesso. Probabilmente la mia testa, già duramente provata, stava affrontando una nuova sofferenza, una specie di corto circuito capace di mandare in tilt ogni pensiero logico. Un corto circuito che sembra durare ancora oggi, in alcune situazioni. E che mi obbliga a tornare indietro, ancora una volta a tentare di ordinare, chiarire, ricordare… Quello che ricordo forse meglio è, appunto, l’ultimo periodo in ospedale, dopo l’ultimo intervento. Mi rivedo sul letto. Gli attacchi di vomito continuano ancora per un po’ ma io comincio ad alimentarmi quasi normalmente. La prima cosa che assaggio è un omogeneizzato alla frutta portatomi, credo, da mia sorella. Poi piano piano, minestrine e pappine. Devo riabituarmi. Ma quando mia sorella e mio marito arrivano con pizze, focacce e panini destinati al loro pranzo… “no, non potete farmi questo, ne voglio anch’io”. E assaggio, anzi divoro. Faccio fatica a masticare, deglutire sembra una specie di affare di stato. Quando riassaggerò, in seguito le stesse pizze e focacce mi sembreranno insapori e un po’ cartonate, ma quella prima volta… erano paradisiache. Mia mamma riprende l’invio di pasti, io faccio molta fatica ad alzarmi e a mangiare, ma ogni volta mi sembra un dono prezioso. Combatto con gli effetti sull’intestino delle tante anestesie subite. Altro ricordo nitido. Io che piango per il dolore, io che provo ogni possibile espediente. “Devi liberarti, o di dimetterti non se ne parla”, mi dicono medici e infermieri. E il senso di vittoria, esaltante neanche avessi vinto un premio ambito, quando una notte combatto e vinco una battaglia non certo gloriosa! Poi ancora una visita. Ho stampato in mente il volto di quattro amici. Avevano saputo da poco cosa era successo e gli era stato descritto un quadro spaventoso. Sono entrati in camera titubanti, temendo di trovare la larva che ero fino a pochi giorni prima. E il sorriso luminoso, il sollievo indescrivibile che gli si leggeva negli occhi… non trovo le parole per descrivere l’emozione provata, ma anche in quel caso è stato un balsamo per le mie ferite. Ho poi un altro ricordo netto, dolcissimo e doloroso. Credo fosse a ridosso delle dimissioni. Ero terrorizzata, volevo disperatamente che tutto finisse ma non sapevo cosa mi aspettava. E rivedo mio papà, accovacciato per terra accanto al mio letto, le mani impegnate in carezze lievi sulla mia testa pelata. Il mio papà, l’orso l’abbiamo sempre chiamato. Burbero, poco incline a dolcezze smielate, tenero quando serve ma proprio quando non può farne a meno… Quel giorno, con me che piangevo disperata, è stato il padre più tenero, dolce, presente, sensibile che si potesse desiderare. Non ricordo le sue parole, lui di solito tutt’altro che incline a lunghi discorsi. Ricordo solo che ha parlato, parlato e ancora parlato. E alla fine io mi sono sentita tranquilla, sollevata. Sicura. Un altro piccolo, immenso dono fattomi da una famiglia – permettetemi di essere ancora una volta un po’ banale e scontata – che ha trovato una forza immensa per affrontare un evento devastante, e lo ha fatto con una capacità, una dedizione, un’attenzione che non ha termini di paragone. Se io sono qua, e se sono così come sono, credo di doverlo anche e soprattutto a loro. Già, sono qua. Ancora una volta a guardare indietro, a fare bilanci, a ricostruire episodi. A farmi domande che, lo so, non hanno comunque risposta. E a cercare un senso in tutto quello che è successo. Un senso che una parte di me sembra assolutamente certa non esista mentre un’altra parte, piccola piccola, continua a sussurrarmi che no, in fondo qualcosa c’è. Fosse anche solo la consapevolezza che ogni istante vissuto vale quanto una vita intera. Non so a chi dar retta, così come non riesco a dare ascolto a chi oggi mi dice “sei stata bravissima”. Io bravissima? Guarda che in certi frangenti non hai possibilità di scelta! Non è che quando sei malata c’è un momento in cui decidi “adesso guarisco”. Se hai fortuna, se hai bravi medici attorno, allora una possibilità ce l’hai. Ma è un caso. Esattamente come è un caso il fatto di essere qua, di essere nati così come siamo. Un caso. Perché io non posso fare a meno di guardare a tutte le circostanze fortunate che hanno fatto sì che le cose andassero come sono andate. La ginecologa che segue la mia gravidanza non sente ragioni, “cesareo, non se ne parla di affrontare un travaglio” Non poteva saperlo, ma non avrei mai potuto superare un parto normale, e forse neanche mio figlio. Il medico di Magenta che decide di dimettermi nonostante il mal di testa, “ne hai sempre sofferto, deve essere conseguenza dell’anestesia” Ho scoperto in seguito che uno dei pochissimi ospedali al mondo nei quali si tenta l’intervento cui sono stata sottoposta è il San Raffaele; a Magenta, dove è nato il mio piccolo, non avrebbero potuto fare nulla. Io che urlo e chiedo un’ambulanza Perché se di cefalee, anche imponenti, soffro da quando ho 6 anni? Mia madre che discute con i volontari dell’ambulanza, “no, portatela al San Raffaele, è meglio” Non ci sarebbe stato il tempo per un trasferimento se mi avessero portato altrove. Al Pronto Soccorso di turno c’è una neurochirurga che capisce al volo cosa sta succedendo Tempo pochi minuti dalla rottura dell’aneurisma e io ero drenata, sta forse qua la fortuna più immensa, l’evento che ha ridotto drasticamente i danni al cervello. Mia sorella, mio marito e mio cognato segnalano ai medici che sta succedendo qualcosa: sta arrivando il vasospasmo Tre angioplastiche realizzate a tempo di record, se si fossero accorti un po’ più tardi di quello che stava capitando probabilmente l’intervento non avrebbe avuto successo. Non so, viste così appaiono come stupidaggini, ma sarebbe bastato un piccolo cambiamento, e io adesso non sarei qui. “Cinque minuti, cinque minuti di ritardo e non avremmo potuto tentare nulla” mi è stato detto a più voci e in più occasioni. Cinque minuti che non avrei avuto, se mi avessero trattenuto a Magenta, o portato in un altro ospedale… Sto scadendo nel drammatico, mi rendo conto, ma fa una certa impressione rendersi conto che la propria vita dipende da una serie di fattori talmente piccoli da apparire insignificanti. Solo che poi si sommano, e producono effetti. E ti lasciano una sensazione strana in bocca. La consapevolezza di quanto siamo fragili e preziosi, di quanto poco ci voglia a perdere tutto… anche senza accorgersene. Ecco, questa è la mia storia. Che continua tutt’oggi, che si arricchisce di altri piccoli episodi, di altre piccole vittorie. Come ogni vita. Storia piccola, come tante altre. Stesse gioie e dolori. Più mi guardo attorno più mi rendo conto che quanto capitato a me non è certo evento eccezionale. Ovvio, ognuno di noi pensa a se stesso in termini di “io”, e altrettanto ovviamente guarda alla propria storia come unica, irripetibile… perché del resto è proprio così, ogni storia per quanto piccola, banale, “normale” è e resta unica. Solo che c’è un pensiero fastidioso che mi ronza in testa ormai da mesi, un pensiero che è una domanda alla quale non so dare risposta, e forse fin’ora a quella domanda nessuno ha mai neppure tentato di rispondere. Un pensiero che nasce da quello che è capitato a me, ma che vedo capitare anche ad altre giovani donne. Da quando ho sperimentato in prima persona cosa vuol dire “aneurisma” è normale che sia più attenta. Forse un po’ meno normale che tutte o quasi le notizie su “aneurisma cerebrale” che mi arrivano riguardino giovani donne incinta o che hanno appena partorito. Casi eclatanti, di quelli che, in termine giornalistico, “fanno notizia”: parti cesarei su madre in coma, discussioni sull’opportunità di far proseguire comunque una gravidanza, ritardi nella diagnosi… Sui giornali, solo negli ultimi due anni e mezzo, sono arrivate almeno sei storie così. E da giornalista so bene che per un evento che arriva alla stampa, ce ne sono almeno altri tre che, per motivi diversi, non arrivano ai mass media. Mi torna poi in mente un caso che avevo seguito anni fa, quello di una giovane donna, madre di una bimba piccolissima, trovata ormai priva di vita in casa. Morte improvvisa e senza spiegazioni, la stessa che aveva colpito anni prima sua madre. Ricordo la disperazione del marito che urlava “è una maledizione” e che temeva che lo stesso destino attendesse anche la figlia… Non so se si sia trattato di aneurisma, all’epoca non avevo seguito gli sviluppo, giornalisticamente parlando una “morte naturale” ha poco interesse. Ma oggi non posso fare a meno di ricordare, e di legare i tanti episodi che, tramite stampa ma anche attraverso racconti di conoscenti e amici, stanno cominciando a diventare una sorta di “caso”. E allora ecco quel pensiero, quella domanda che mi ronza insistente in testa. Vero, la gravidanza in sé non è certo causa di aneurismi, tanto per essere chiari il mio – un aneurisma gigante dell’arteria vertebrale – ha iniziato a formarsi probabilmente quando ero ancora bambina. Ma può la gravidanza essere concausa della rottura? Penso ad esempio ai primi episodi di ipertensione, che hanno coinciso con la mia prima gravidanza poi interrottasi con un aborto interno. E ripresentatisi al termine della gestazione che mi ha portato Asia, la cui nascita è avvenuta con un cesareo di urgenza proprio a causa dei picchi pressori elevatissimi registrati durante il travaglio. Pressione che ha ripreso a salire dopo la nascita di Luca, e che durante tutta la gravidanza era stata tenuta sotto controllo su decisione della ginecologa, ben decisa a non correre rischi visto quanto accaduto con Asia. Oggi non posso fare a meno di chiedermi se gli sbalzi ormonali tipici di gravidanza e parto non abbiano qualcosa a che vedere con la rottura di aneurisma. Me lo chiedo, e l’ho chiesto anche a qualche medico. I più hanno scrollato le spalle, qualcuno ha detto “non si sa”, altri negano sostenendo che “non ci sono prove”. Sarà, ma il dubbio resta, e non posso fare a meno di sperare che prima o poi qualcuno se ne interessi. Se davvero così fosse, e se si potesse arrivare a stabilire che sì, le modificazioni ormonali di una gravidanza possono essere fattore di rischio in caso di presenza di un aneurisma, allora forse si potrebbe inserire la risonanza magnetica tra i controlli da effettuare, se non altro in casi sospetti. E’ una speranza, la mia, forse anche un piccolo appello lanciato da una piccola voce che ha vissuto una storia piccola, ma che sa che tra gli eventi dolorosi che ogni vita affronta, uno di quelli più drammatici è proprio vedere la coincidenza tra il donare la vita e rischiare la morte.

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